Nel 2007 sono stato chiamato da Leonardo Quaresima, mio ex-collega al DAMS di Bologna, poi passato alla cattedra di cinematografia in quel di Udine, e in tale veste organizzatore di importanti convegno internazionali in quella materia, a tenere addirittura la prolusione di uno di quegli incontri, cosa che feci entusiasta di tanto favore concessomi, sostenendo una tesi volutamente paradossale: “Un Aristotele redivivo avrebbe ammesso il cinema nella sua Poetica?” Ovviamente la mia risposta era affermativa, in nome dell’acutezza dello Stagirita, che era stato capace di superare lo scoglio del cosiddetto specifico, ben capendo che l’epica, antenata del romanzo dei tempi a venire, cioè il racconto in terza persona, e il teatro, nei generi già allora esistenti della commedia e della tragedia, hanno in comune due componenti essenziali, l’intreccio prima di tutto, e poi l’ethos, ovvero la descrizione di costumi e mentalità psicologiche, sia di ordine individuale che sociale. Le strade si dividono magari se si viene alla successiva “lexis”, cioè alle modalità di discorso, dove evidentemente sulla scena si deve adottare un eloquio diverso da quello che conviene alla narrazione indiretta. Ma appunto, quelle due prime parti essenziali, anche il cinema le condivide, e dunque non dovremo meravigliarci se qualche autore riesce a passare da una forma espressiva all’altra. Una magnifica conferma ci viene ora da Pupi Avati, che alle spalle ha decine di film, alcuni capolavori, altri magari no, comunque col diritto di venire considerato uno dei grandi registi della nostra storia. E ora, con “Il ragazzo in soffitta”, passa con piena disinvoltura a darci il suo primo romanzo, in modo del tutto positivo. Naturalmente, non si chieda in casi del genere la presenza di un raffinato stilismo, il romanzo di Avati è condotto con un linguaggio “scorrivia”, proprio come si converrebbe a una sceneggiatura, ovvero rimaniamo sempre in sospeso tra un esito del tutto narrativo e uno cinematografico. Diciamo pure che il regista una volta tanto, nel concepire una delle sue tipiche storie, ha rinunciato a darle l’esito a lui così familiare affidato agli schermi, per riversarla piuttosto in un prodotto cartaceo, ma perfino con qualche vantaggio. I film del regista bolognese mi sono apparsi alquanto in calando, nelle loro ultime uscite, invece questo canovaggio o sceneggiato in prosa gli riesce superiore, affascinante, anche perché provvisto della natura “giallo” con una ben congegnata sorpresa finale. Per il resto, come ben si può immaginare, siamo a una equipollenza dei temi, il romanzo ci introduce prima di tutto al solito spaccato di vita bolognese, di famiglie bene, con un rampollo vispo in prima fila, che in questo caso si chiama Berardo Rossi detto Dedo, non troppo bravo negli studi ma scalpitante di amor proprio e di voglia di successo. Però Avati annida nel seno delle famiglie bene qualche cadavere nell’armadio, qui un ruolo del genere è affidato al fratello minore Follo, deliziosa figura di down su cui occorre vigilare, se no, ne combini di tutti i colori, come quella di mangiare le preziose orchidee che il padre, passato a convivere con una fioraia, coltiva con molta cura. Infatti queste brave famiglie il più delle volte si presentano lacerate, da padri o madri che lasciano il tetto coniugale andando a vivere con altri partner. E anche il mondo della scuola presenta sorprese, con insegnanti duri e crudeli, altri che invece sono vittime di scolaresche turbolente.
Ma fin qui, tutto di ordinario, però il regista-narratore non tarda ad aprire un altro fronte, nella persona eponima del ragazzo che con i genitori viene ospitato in soffitta, reduce da un’esistenza consumata a Trieste, con cupe storie alle spalle, riguardanti un genitore che si sa uscito addirittura da un manicomio criminale, presenza quasi mostruosa che si nasconde appunto nella soffitta, come un incubo oscuro conservato nella coscienza comune. La storia insomma si apre a chiasmo, da un lato lo scenario in sostanza tranquillo e bonario di una Bologna degna del Bar Margherita, con traumi e afflizioni ma sostenibili e rimediabili. E invece il co-protagonista, Giulio, è la tessera che non quadra, preso in astio da docenti e discenti perché è impacciato, introverso, “secchione”. Ci vuole tutta la generosità di Dedo per superare una barriera di ostilità e concepire un’amicizia spinta con quella povera vittima dei pregiudizi. Che peraltro sono giustificati, infatti rovistando nella sequenza della vicenda affidata a una Triste dura, sgarbata, implacabile, si para davanti a noi una storia orrenda, basta risalire negli anni e venire al padre di Giulio, portatore proprio di un cognome colmo di tutte le asprezze di quel versante del racconto, Menczer, con tanti guai alle spalle: madre e sorella morte, che però lo perseguitano, lo obbligano a volersi essere grande suonatore, mirando a giungere addirittura a una Orchestra nazionale, come infatti avviene. Ma poi su questo disgraziato Menczer si abbatte la crudeltà dei “normali”, dato che in fondo non è per nulla capace di prestazioni di buon livello, e dunque viene licenziato con onta, suscitando in lui un impulso alla vendetta che lo porta a sequestrare la figlioletta di uno dei suoi persecutori. Per fortuna lui stesso si pente e al momento se la cava con pochi anni di prigione, poi esce, e finalmente può realizzare il massimo traguardo della sua vita, sposare una tale Ornella, anche se questa ha ben dieci anni più di lui. Nel frattempo la donna amata è rimasta vedova e può dunque accettare di risposarsi con questo fedele e tenace aspirante. Però nel frattempo lei ha dovuto pagare un grosso tributo alla malasorte abbandonandosi alle voglie di un volgare e compiaciuto Enrico Bestian, bestiale come dice lo stesso cognome portato. Il quale tuttavia ha riposto tutto il suo amore in due deliziose bambinelle, cui il miserevole musicista è chiamato a dare lezioni. Sennonché un brutto giorno le due fanciulle vengono ritrovate orridamente assassinate, del che la trista figura di Menczer è immediatamente ritenuta colpevole, e dunque di nuovo viene internato in manicomio criminale. Quando poi esce, il chiasmo si ricompone, infatti questo ex-carcerato, ormai stremato di forze, compare come misteriosa presenza nella soffitta che in definitiva domina l’intera vicenda, da cui però il furor di popolo pretende che sia allontanato, fino a che morte non sopraggiunga, col compito di sciogliere i nodi. Infatti, avvenuto quel sacrificio espiatorio, Giulio può ritornare a vivere nella soffitta, confortato almeno dall’amicizia che il bravo Dedo non gli ha mai negato. Non solo, a questo punto scatta lo scioglimento, la catastrofe finale, come l’ottimo Aristotele non aveva mancato di porre al termine dei componimenti previsti dalla sua Poetica. Ovviamente, devo lasciare ai miei pochi lettori di fronte a questa suspense decisiva, augurandomi che invece siano in tanti ad onorare la bella prova di un Avati narratore, cui spero vogliano seguirne altre ancora
Pupi Avati, Il ragazzo in soffitta, Guanda, pp. 248, euro 16.