Anche la mostra di Gaetano Previati, mi devo limitare, per le attuali proibizioni, a visitarla in modo virtuale, con la difficoltà rispetto ad altri casi, che la rassegna è allestita nel Castello Estense, sede insolita, mentre beninteso conosco a memoria la suite offerta dal Palazzo dei Diamanti, compreso il penoso budello del collegamento esterno tra le due ali. Ma Previati mi è ben noto, e dove non arrivano le immagini delle sue opere scaricate dai siti virtuali, sopperisce il meticoloso dossier fornito dalla rivista omonima, “Arte e dossier”, a firma Sileno Salvagni, dove credo compaia quasi per intero la produzione dell’artista ferrarese. Che è stato un grande, a cavallo dei due secoli (1852-1920) al pari di Giovanni Boldini e di Filippo De Pisis, quasi degni di vedersi dedicata una seconda puntata della longhiana “Officina ferrarese”, però con la grande differenza che i protagonisti della fase quattrocentesca vissero per lo più entro le mura estensi, mentre i loro lontani seguaci dal nido natale dovettero emigrare per cercare fortuna e nutrimento altrove, né del resto lo stesso Longhi sarebbe stato disposto a rivolgere il suo talento a loro vantaggio. E ancora, al di là del comune luogo di nascita i tre seguirono percorsi tra loro ben diversi, uniti però dal fatto di recitare ruoli molto personali, nettamente distinti rispetto a quanto prevedevano i rispettivi movimenti di appartenenza. Così, Boldini è stato un impressionista molto sui generis, a sfida del manipolo più reputato degli abitanti della Senna. E anche la Metafisica di De Pisis, o la sua appartenenza al novecentismo, hanno seguito piste originali. Così si dica pure per Previati, a cominciare dalla sua massima invenzione, un divisionismo del tutto diverso da quello ufficiale creato da Seurat, che era a coriandolo, se non proprio a puntinismo, ed ebbe pronta accoglienza anche presso di noi, soprattutto nel Piemonte di Pellizza e poi di Balla. Ma quel procedere come a scudisciate che fendono lo spazio, che vi distendono una fisarmonica di fibre, da dove l’ha preso, il nostro Previati? Pare proprio che sia una ricetta sua esclusiva, di cui non si trovano precedenti o suggerimenti in quegli anni. Eppure fu per lui come una tuta d’amianto che gli permise di affrontare indenne temi “di cattivo gusto”. Come si sa, e sia la mostra sia il dossier confermano, frequentò nei primi anni il tema storico, con soggetti impossibili, sempre a un passo dal kitsch, cui del resto non si sarebbe sottratto anche nel seguito della sua tormentata carriera, Visioni settecentesche, di rilancio di un frivolo rococò, o di un Ottocento melodrammatico, e poi temi religiosi, Cristi dolenti, madri-madonne sofferenti, voli di angeli, nulla si è risparmiato il nostro artista, magari ricollegandosi per questo verso a uno “storicista” accanito come Domenico Morelli. Ma quel procedere per fasce, per scomposizioni ingegnose, lo ha sempre salvato, per esempio tenendolo lontano dal fare oleografico di Hayez e di tutti gli altri “romantici”. Semmai, andato a Milano, gli fu ottimo incitamento l’arte degli Scapigliati, soprattutto di Tranquillo Cremona, che lo preservò dal delitto di comporre in modo compatto, disteso, uniforme, insegnandogli invece a sfilacciare la composizione. Ma al confronto Cremona aveva be poco metodo, si limitava a un disordinato sfarfallio, seppur ingegnoso e di ottima levatura pittorica. Previati sentiva invece il bisogno di “pettinare” i suoi dipinti, ma così ne ricavava come una serie di lacci per andare ad afferrare fantasmi, creature ideali, angeli o demoni, e a questo modo entrava a vele spiegate nel clima del Simbolismo, iscrivendosi addirittura come nostro numero uno in quei registri. A gara, forse, con un altro frequentatore di Brera come lui, di nascita molto lontana, Segantini, il quale però, come un Van Gogh nostrano, sentiva l’attrazione della pasta, del colore denso e quasi in rilievo, mentre il rivale Previati lo distendeva, lo rendeva aereo, fluttuante. Uno dei suoi grandi meriti storici è stato di impostare una fondamentale staffetta col principale rappresentante del Futurismo, Boccioni, in definitiva l’unico ad aver inteso a fondo il vantaggio di quel dipingere per il lungo, con dei filamenti che bastano già per conto loro per dare al dipinto un flusso aerodinamico. Anche se poi un autentico protagonista del Novecento come Boccioni sentiva l’obbligo di liberare le immagini dalle curvature troppo simboliste e patetiche del predecessore. Il passaggio dal “Paolo e Francesca” di Previati alla ripresa di quel tema da parte di Boccioni è un magnifico indice della trasformazione che bisognava pur compiere, per lasciarsi alle spalle il patetismo di fine Ottocento e avventurarsi nei ritmi più decisi e spietati del nuovo secolo.