Sono ben lieto che la 71° edizione del Premio Michetti sia stata affidata a Guido Molinari, per me è quasi un atto di giustizia, in quanto con lui, e con Guido Bartorelli, che spero possa a sua volta curare una prossima edizione del Premio, avevo gestito varie rassegne, intitolate Officine o, con qualche sicumera, Biennali dei giovani, dove molte delle proposte venivano da loro. Io stesso, quando due anni fa ho curato a mia volta un Michetti, ne avevo approfittato sfruttando alcuni loro suggerimenti, E’ dunque se si vuole una partita di giro, anche con un’impostazione di base, che riconosce come tratto tipico dei nostri anni una situazione di eclettismo sistematico, di ibridazione endemica. Io in proposito utilizzo un efficace termine proposto dalla coppia francese Deleuze-Guattari, quella di plateau, cioè di una specie di altopiano in cui si raggiunge un equilibrio dinamico cercando di tenersi lontani dagli orli estremi. Un tempo invece si preferiva stare tutti da una parte, o verso l’innovazione spinta, con disdegno dei mezzi tradizionali, o verso un loro recupero in nome di un gusto rétro. Nella presentazione alla sua mostra Molinari ha usato un’ottima metafora, dicendo che questa trentina di artisti ci propone ciascuno un proprio cocktail, cioè una giusta miscela tra ingredienti diversi, con ricette personalizzate al massimo. Il titolo della rassegna indica già di per se stesso questo stato di privatizzazione spinta, parlando di un’”Aureola nelle cose” che porta anche a un “sentire l’habitat”, e mi pare derivarne la conseguenza che ciascuno dei partecipanti usa appunto i sensi a modo suo, in tanti modi diversi. Del resto, non si creda di essere in presenza di una specie di serie bis, rispetto alle nostre precedenti antologie. In fondo, di “ritornanti” ce ne sono solo tre: Pierpaolo Campanini, col suo iperrealismo. che però ora sembra volersi sgretolare, allentando l’ordito stretto con cui di solito si presenta (A lui uno dei due premi acquisto). E Valerio Nicolai, con una tradizionale visione di una cappa di camino sotto cui però albergano strani fluidi invasivi. Infine, le foto di Niccolò Morgan Gandolfi, ma a dire il vero proprio questo gusto accentuato del particolare porta a non praticare in eccesso un mezzo, evidentemente considerato troppo freddo. E poi ci sono prove di squisita sensibilità, anche se sfuggente, al limite dell’invisibile, come di Serena Vestrucci, che dorme munita di una matita chiamata a registrare i mini-movimenti compiuti involontariamente nel sonno. Giuseppe Lana insegue e fissa il volo delle zanzare. Enej Gala ci propone uno spezzatino di animali, rospi schiacciati, che diventano come enigmatici testi di Rorsach, o colli mozzati di gallinacei. Marta Pietrobon ci propone un vassoio di ostriche, ma di sicuro indigeribili, divenute simili a gioielli, a talismani, non certo da inghiottire. In fatto di macchie o sagome, compare anche Marco Samoré, vecchio cavallo di battaglia che si sa rinnovare. C’è chi, come il duo Lisa Dalfino-Sacha Kanah, offre un piatto colmo i colori e sapori, quasi un simbolo efficace dell’intera rassegnadi. Marcello Tedesco ci propone una statua poggiante su una base estremamente elaborata, quasi seguendo l’esempio dei favolosi piedistalli di Brancusi. E beninteso ci sono coloro che non evitano il ricorso a sua maestà la pittura, come Giovanni Copelli, che sembra quasi voler rendere omaggio a uno dei novecentisti anni Trenta come Pompeo Borra. E molto sapiente è pure la combinazione di immagini di “buone cose di cattivo gusto” che inzeppa in un dipinto Thomas Braida, con tanta abilità da meritarsi uno dei due premi ufficiali assegnati da questa rassegna, che si fa vanto esplicito di essere costituita da tanti “poveri ma belli”.
L’aureola nelle cose: sentire l’habita, a cura di Guido Molinari, 71mo Premio Michetti. Francavilla a Mare. Catalogo Corraini.