Siamo ormai invasi, la cosa è sotto gli occhi di tutti, da una profluvie di narrativa “gialla”, che dal cartaceo si diffonde, ancor più invasiva, nell’ambito dei programmi televisivi forniti dalle varie reti. Il fenomeno, più che essere di competenza di un giudizio critico fornito caso per caso, è da valutare con i criteri della sociologia, magari per scoprire che non si tratta certo di una novità. In altre stagioni si sono avuti fenomeni analoghi, e anzi ancor più estesi. Ho già ricordato più volte l’infinito e dilagante ciclo del romanzo cavalleresco, ai tempi del medioevo, tanto da generare la reazione di un Cervantes col suo Don Chisciotte. Purtroppo non vedo chi oggi riesca ad opporsi a questa invasione. Qualche tentativo lo possiamo trovare in Ermanno Cavazzoni, mentre i già appartenenti alla ondata dei cannibali, o dei frequentatori degli incontri di Reggio Emilia, di RicercaRE, mi sembrano ora intenti a rifugiarsi nella trincea di contenimento della autofiction, da Covacich a Piccolo a Pincio. Ma se così stanno le cose, diciamo pure che il migliore prodotto è quello che ci viene dalla premiata industria gestita da Andrea Camilleri. Ho sul tavolo accanto a me gli ultimi romanzi di Maurizio De Giovanni, “Le parole di Sara”, e di Giancarlo Carofiglio, “La versione di Fenoglio”, avendo avuto la tentazione di dedicare all’uno o all’altro di loro questo mio intervento domenicale, ma infine ho dovuto riconoscere che la fabbrica di Camilleri produce in modi più intriganti ed efficaci, come ha dimostrato il suo recente prodotto cartaceo. “Il metodo Catalanotti”, e ribadito alcune riprese televisive su RAI 1 che ci sono state ammanite nei recenti lunedì della settimana. A proposito delle quali, noterò en passant che è indecoroso che la principale rete nazionale si metta anch’essa a darci dei cibi riscaldati, a scovare dagli archivi vecchi spezzoni già presentati. Lasci che un compito così degradante resti affidato a reti minori, come Rai Premium, libera di propinarci una serie inesausta di rilanci dei vari Marescialli e Brigadieri e Commissari e Donne detective, con cui, a dire il vero, gareggiamo con esiti non disastrosi rispetto alle riproposte che ci giungono dalla Sette o da Giallo, rivolte anche loro ad affliggerci con riapparizioni incessanti dei Cordier o dei Barnaby, e via replicando. Tornando a Camilleri, anche nella sua officina non è tutto oro quello che luccica, ma forse un difetto del genere è inevitabile, proprio in materia di una narrativa di taglio popolare e di consumo. Vado un po’ a spulciare appunto alcuni di questi remake, riproposti con la voce auratica, mistico-sacerdotale di un Tiresia redivivo, di un Camilleri nei panni di un santone dei nostri giorni, che mai ammetterebbe di avere dei segreti del mestiere, cioè di ricorrere a meccanismi già sfruttati, e riproposti affidandoli alla ben nota maestria di Luca Zingaretti, fin troppo a suo agio nei panni del Commissario Montalbano. Ma si deve guardare da un eccesso di immedesimazione in quella parte, che potrebbe impedirgli di saltarne fuori e di indossare altri abiti, come dovrebbe pur fare un attore a tutto campo. E sarebbe anche l’ora che il suo creatore lo liberasse dalla fastidiosa appendice data dalla compagna sempre assente, sempre lontana, con comparse che credo ogni spettatore respinge annoiato, considerandole quasi peggio degli intervalli pubblicitari. Ma veniamo alle trame, e al vizietto di riciclare sequenze già sfruttate. Nelle tre ripetizioni di cui vado a parlare, la più immune è “Amore”, dove resta felice la trovata dei due coniugi, attori di mestiere, che giunti al termine della loro vita “provano” come sopprimersi l’uno al seguito dell’altra con un colpo di pistola. Ma l’attenzione principale va all’amore profondo, che si muta in gelosia, in sacro senso del possesso, che un tale Saverio Moscato prova nei confronti di una fanciulla sventurata, costretta in passato ad essere la donna di altri, e sottoposta alla tentazione di darsi ancora a relazioni improvvise. E allora, proprio a difesa dell’amore esclusivo che vuole rivolgere solo a colui che in definitiva meglio di tutti l’ha compresa e accolta, la donna decide di suicidarsi, a scorno, in questo caso, delle indagini di Montalbano, che tentato dal suo stesso mestiere penserebbe piuttosto a una “ammazzatina” prodotta dalla mafia, o dalla gelosia dell’amante che non riesce a liberarsi dal ricordo dei passati tradimenti subiti. In definitiva, morendo, la donna amata si concede pienamente a lui, che le può dedicare un culto funerario ossessivo, macabro, Mi pare di aver già ricordato che il colto Camilleri in proposito riecheggia il grandioso finale di uno dei capolavori di Dostoevskij, “L’idiota”, dove una figura analoga di amante infelice decide di far fuori l’amata per averla per sempre a sua disposizione.
Camilleri forse è un po’ troppo propenso a valersi dell’incesto come deus ex macina dei suoi intrighi polizieschi, lo ha già fatto ad alto livello in uno dei suoi capolavori, “Il cane di terracotta”, 1996, ricade nella replica in uno di questi recuperi, “Covo di spie”, dominato dalla figura di un impenitente Don Giovanni, tale Cosimo Barletta, conquistatore di femmine, ma conquistato a sua volta da un amore che non perdona nutrito verso la figlia Giovanna, pronta però a ucciderlo quando lui non sa resistere alla tentazione di rivolgersi anche altrove. Il bello è che, per abiette ragioni di interesse, temendosi diseredato dal genitore troppo zuzzurellone, anche il figlio maschio decide a sua volta di reprimerlo, e ammettiamo pure che la doppia “ammazzatina” segna un punto a favore di una certa originalità di trama.
Invece non si capisce perché ne “La giostra degli scambi” Camilleri abbia ripreso un meccanismo da lui appreso dai maestri del giallo, niente meno che Simon Maigret e Agatha Christie, che hanno fatto ricorso alla trovata della sequenza di crimini gratuiti per confondere le idee agli investigatori, e a noi spettatori, onde preparare il terreno e giungere al delitto cui invece si mirava fin dall’inizio con stringente perfezione. Siamo alla “Giostra degli scambi”, in cui, intanto, ritroviamo come motore primo l’incesto, ovvero la storia di un anziano che, tradito dalla fanciulla da lui adottata, e preparandosi a ucciderla in modo selvaggio, come un Pollicino delittuoso semina il percorso non di omicidi, ma di sequestri gratuiti. Solo che in questo caso il ricorso a un simile stratagemma è del tutto ingiustificato, in quanto il piano criminale del genitore incestuoso è di far ricadere la colpa sul penultimo amante della figlia, inducendo a credere che sia stato lui a sopprimerla per gelosia, fino al punto da portare denuncia contro di lui. E Montalbano sta quasi per abboccare, per accusare questo tale di entrambe le orride “ammazzatine”, perpetrate ai danni sia della ragazza, colpevole due volte, in quanto aveva tradito anche l’ultimo innamorato passando tra le braccia del migliore amico di lui. Ma poi Montalbano si riscuote, fa uso delle sue migliori doti, sbroglia l’intricata matassa. Queste dunque le luci e le ombre dell’industrioso apparato narrativo di Camilleri, ammirevole, ma da accompagnare con una nota limitativa, non si consideri alla stregua del corregionale Pirandello, di ben altra e alta statura, e non assuma i toni, come detto sopra, del profeta, dell’ammaestratore dei nostri tempi. In fondo, vale anche per lui il classico “sutor, non ultra crepidam”.