Da tempo sto manifestando i miei dubbi verso quella che è stata definita New Italian Epic, cui in genere rivolgo un giudizio negativo. Non riesco quindi ad essere favorevole verso chi in genere né da tempo un cultore accanito, e prediletto da un pubblico consenso, Sebastiano Vassalli, di cui quindi boccio senza esitazione il suo Terre selvagge (Rizzoli). Siamo a una circostanza illustre e ben nota, alla difficoltà rintracciabili nelle opere “miste di storia e d’invenzione”. Già lo stesso proponente della formula, il grande Manzoni, era ben consapevole di quanto fosse difficile far coesistere le due componenti, tanto che, dopo il miracolo ottenuto nei Promessi sposi, desistette addirittura, con grave delusione dei lettori del suo tempo. Vassalli, a dire il vero, se la cava abbastanza bene sul primo fronte, della storia, leggendo la sua opera si apprende una grande quantità di notizie utili sullo scontro tra il console Mario e la tribù germanica dei Cimbri: da dove questi venivano, come vivevano, come si svolse l’immane battaglia ai Campi Raudii, perfino con accurate informazioni sulla nascita di quel toponimo. E ci sono tante altre indicazioni utili e accurate, l’identificazione geografica dei luoghi, perfino i sistemi di nutrizione di quei tempi, con la curiosa notizia che i soldati romani si cibavano dei gamberetti di fiume, pescati da squadre apposite. Uguale attenzione, ovviamente, viene rivolta alla popolazione germanica opposta, con notizie di come erano riusciti a valicare le Alpi, come avevano vinto le battaglie precedenti. Il tutto con un andamento agile, quasi da ricordare il Montanelli delle varie puntate sulla nostra storia patria, comprese certe garbate e divertite attualizzazioni, come quando si dice che Mario era quasi un Kennedy del suo tempo, cioè imparentato con le migliori famiglie del patriziato romano, nonostante la sua origine umile. Efficace pure il ritratto che ci viene fornito dell’antagonista Silla, di cui vengono seguite le mosse ipocrite attraverso le quali egli si prepara a scavare il terreno sotto i piedi del rivale al momento più fortunato e di successo. Divertenti anche le vicende dell’arco di trionfo eretto per Mario, e poi sparito nel nulla.
Ma le difficoltà, anche per Vassalli, si danno quando su questo corpo sano della ricostruzione storica, che conduce alla brava, va a inserire i peraltro inevitabili innesti del romanzesco, dove procede in modo quasi naïf, con vicende risapute, o di scarsa congruenza col contesto generale. Subito all’inizio, in conformità dell’alto esempio manzoniano, abbiamo la fuga delle povere popolazioni piemontesi incalzate dall’arrivo dei Lanzichenecchi, pardon, dei Cimbri, con un fabbro, tale Tasgezio, che assieme alla madre Lunilla sta a guardare dalla soglia del suo abituro quel flusso nei due sensi, andata e ritorno. Questo personaggio è un cuore solitario, e dunque ha una valenza affettiva pronta ad accogliere un cuore ugualmente disponibile, che salterà fuori, incredibile a dirsi, dopo aver tanto predicato sull’assoluta ripugnanza reciproca dei barbari e dei Galli latinizzati, tra lui e la figlia di un gran capo, Agilo l’Orso. Si tratta di Sigrun, fanciulla che ascolta le voci e dunque è una “diversa”. In realtà sembra di assistere a una vicenda di pellirosse, se l’anziano Orso è un capo timorato e prudente, il più giovane Widimir è impulsivo e scriteriato, e dunque condurrà le sue truppe ad assalire Fort Apache, pardon, il trinceramento sapiente in cui Mario attende senza fretta le truppe germaniche, avendo già sconfitto gli alleati Teutoni. Dopo la sconfitta, le virili donne dei Cimbri uccidono i loro maschi, colpevoli di essersi lasciati battere, per poi procedere a uccidersi a loro volta per non cadere in schiavitù dei Romani, e dei Galli ormai sul punto di essere naturalizzati. Tra queste donne fiere fino alla morte c’è pure Ramis, sorella maggiore di Sigrun, mentre quest’ultima si salva proprio per il suo carattere di creatura “diversa” che sa dialogare con le divinità nascoste nelle selve, riuscirà quindi a congiungersi col bravo fabbro di cui si è detto all’inizio. E così via, in un’alternanza tra brani di attenta ed efficace osservanza dei diritti della storia, e inserti di fantasia, quasi sempre ingenui o addirittura inutili, come l’episodio dei due giocolieri, marito e moglie, che chissà perché si spingono nel cuore della tribù selvaggia per allietarla con giochi di mano, come il lancio dei coltelli, di cui però restano vittime, condannati in quanto sospettati di essere spie al soldo dei legionari romani. In sostanza, dal tutto si potrebbero togliere gli episodi di invenzione romanzesca, e rimarrebbe uno scorrevole opuscolo di informazione storica.