Letteratura

Pollice verso per “Dunkirk”

Sono corso a vedere il film “Dunkirk” del regista Christopher Nolan, secondo un’attrazione forse ancora di natura infantile-adolescenziale per i grandi film di guerra, di cui il capolavoro, che non mi stanco mai di rivedere, è “Il giorno più lungo”, attenta, scrupolosa, trascinante ricostruzione dello sbarco degli Alleati in Normandia, nel giugno 1944. Purtroppo al confronto quest’opera è del tutto inferiore, inadeguata, non fa capire nulla di quell’evento storico, per averne un’idea bisogna andarsi a rileggere l’ampia informazione che ce ne offre l’enciclopedia portatile di cui oggi disponiamo, google. Il regista spezzetta l’azione in tanti episodi parziali, a sé stanti, il più delle volte incominicanti tra loro, come squarci di bravura spesso anche condannati all’inverosimiglianza. Io evidentemente, coi miei cinque anni d’età, ero del tutto ignaro di quel dramma, i miseri mass media di allora non ce ne restituivano immagini sufficienti, ma ritengo che fosse contrario a ogni buona regola tattica che i soldati in attesa del reimbarco di emergenza se ne stessero sulla spiaggia in lunghe file, come tanti birilli offerti alle raffiche dell’aviazione tedesca. Suppongo che gli ufficiali raccomandassero alla truppa di starsene acquattata tra i cespugli, o stesa a terra, in attesa dell’attracco delle navi salvatrici. Saranno anche belle, ma del tutto inverosimili, quelle file di soldatini immobili, in attesa di ricevere i colpi fatali dai voli della Luftwaffe. Inutili, periferici propri questi voli, e i duelli con gli spitfire dell’aviazione inglese, quasi che il regista, per mancanza di fantasia, si fosse portato dietro qualche scampolo della “Battaglia d’Inghilterra”, tutta fondata sugli scontri aerei che le due aviazioni combatterono allora sulla Manica. Soprattutto nel film manca un tentativo di inquadramento, come invece ci è fornito dall’ammirevole “Giorno più lungo”. Il nemico tedesco è del tutto assente, piovono colpi, bombe, fucilate, come una imperscrutabile pioggia dal cielo. Nulla ci è detto dello scontro tra i comandi francese e inglese, che pare fosse molto aspro e accanito. C’è qualche raro tentativo di discriminazione, qualche soldato inglese che blocca il passo al collega dell’altro esercito, ma poi il tutto finisce in niente. Assurdi gli episodi in cui la grande trama collettiva si risolve. Ci viene narrata la vicenda di una delle tante imbarcazioni inglesi da diporto che passarono il Canale per andare a recuperare un qualche drappello delle truppe in fuga, ma grottesco è che questi bravi yachtmen trovino sulla loro strada un profugo aggrappato sul relitto di una nave affondata da un Uboat. C’era bisogno di mettere anche questo mezzo nel calderone generale degli strumenti offensivi? Inutile, fuorviante la divagazione che ne risulta, del superstite stressato che non vuole che si ritorni verso la costa da cui lui stesso è fuggito, ma certo è pessima idea quello si isolarlo sprangandolo in cabina, e dunque appare perfino giusto che quando ne esce si vendichi infliggendo una ferita mortale a un giovane dell’equipaggio. Fra tanti deceduti, c’era bisogno di farne fuori uno anche in via così marginale? Ma non è certo questo l’unico episodio assurdo, uno peggiore sta in quel gruppo di fuggiaschi che si vanno a rinchiudere in una carretta del mare in attesa dell’alta marea per tentare di partire, ma che a un certo punto sono vittime di un tiro a segno che li decima. Chi spara? Non possono essere i Tedeschi, ancora lontani, sono allora dei commilitoni che si esercitano in un vacuo tiro al bersaglio? Mistero, come tutto è misterioso e incerto, in questa ricostruzione dove ogni tanto il regista tira a sorte e, tanto per mantenere il clima del disastro, fa saltare in aria, silurata bombardata, una nave da trasporto, con tutto il suo carico. Se parliamo degli attori, si stenta a riconoscerli, perché ci si presentano con volti oscurati dal fango, o dal carburante fuoriuscito che li ha inondati. Non riusciamo neanche a capire come vanno a finire le singole sorti, le varie persone muoiono, o invece rinascono e ce le ritroviamo poco dopo a saltellare come grilli in mezzo alla baraonda generale? L’unico attore riconoscibile è Kenneth Branagh, nelle vesti di un comandante della marina, fin troppo paziente nell’attesa di mezzi che non arrivano. Se poi, assieme ai reduci che giungono sulla sponda inglese cerchiamo di capire in che modo fossero accolti, anche qui tutto è incerto, loro stessi si sentono come degli eroi o come degli sconfitti che abbiamo dato prova con la fuga di viltà dovendone provare vergogna? Insomma, non c’è quadro, prospettiva, informazione, siamo in presenza di un campionario fine a se stesso di orrori, mattanze, affondamenti, da cui è bravo chi riesce a ricavare un senso, se non andando a leggere google, l’unica possibilità di inquadrare tanta dispersione.

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