Credo che sia abbastanza nota la mia lunga amicizia, durata circa un trentennio con la star internazionale Jean Dubuffet, iniziata a metà dei ’50, quando gli avevo dedicato un saggio sul “Verri”, da lui tradotto in francese, con invito ad andare a trovarlo, cosa che avevo fatto a intervalli regolari fino a poco prima della sua morte. Confesso che in seguito ho tentato di realizzare un identico scoop con qualche altro nume del panorama internazionale, ma molti sono stati i miei omaggi ai grandi del momento, però non seguiti da riconoscimenti paritetici. Sono andato molto vicino a realizzare un esito di questo genere con Jeff Koons, artista ben diverso da Dubuffet, ma pure lui alla testa delle situazioni stilistiche che si è trovato, e si trova ancora, a sperimentare. Ne avevo visto le opere in una mostra illuminante tenuta da Ileana Sonnabend, quando ancora aveva la galleria a Soho, e accanto a lui c’erano altri forti esponenti statunitensi quali Haim Steinbach e Peter Halley. Io, con la mia indefessa pratica di fenomenologo degli stili, ero pronto a capirli e ad apprezzarli. Infatti avevo decretato la fine della fase a ritmo pendolare tra nuovismo e musealismo anni ’80, quest’ultimo caratterizzato secondo il mio punto di vista dai Nuovi-nuovi, e alla dialettica binaria predicata dal Woelfflin avevo ritenuto che era ora di sostituire lo schema ternario tipico di Hegel. Dopo cioè una fase di tesi, di apertura su tutti i fronti, propria dello spirito del ’68, aveva fatto seguito una antitesi, cioè chiusura, ritorno all’antico e al museo, connotati tipici di tutti gli anni ’70 fino all’85. Ma poi era subentrata la sintesi tra le due tendenze, il ritorno, per esempio alla Pop e alla Op Art, e anche al concettuale, conditi però con un pizzico di estro, in una conciliazione tra il “povero” e il “ricco”. Ovvero, per dirla in termini sociologici, eravamo passati da una fame per prodotti primari, essenziali, a un momento ulteriore di appetiti più sofisticati. Segno tipico di tutto questo, le auto, che non dovevano essere più aninime e di serie, ma abbondantemente accessoriate. Il superfluo, insomma, faceva il suo ingresso trionfale nel paniere dei consumi. Nel ’90 mi venne l’invito a essere commissario dell’”Aperto”, alla Biennale di Venezia di quell’edizione, e non cesserò mai di dire tutto il bene possibile di quella sezione, collocata nelle magnifiche Corderie, auspicando che la Biennale torni al più presto a riproporre quella utile iniziativa, rivolta ad accogliere le nuove proposte. Quella fu per me l’occasione ideale per invitare i campioni della sintesi, secondo la mia accezione, quelli che si erano già presentati qui in Italia, come Stefano Arienti, Umberto Cavenago, alcuni dei Nuovi Futuristi, ma estendendo l’attenzione anche ai rappresentanti della situazione internazionale, tra cui in primo luogo proprio Koons, mentre mi pare di ricordare che altri, come Steinbach e Halley, erano già stati invitati in precedenza. Koons mi fu grato di quell’invito, cui fece seguito, sempre da parte mia, un trattamento di favore, quale numero uno della nuova situazione internazionale, quando curai la rassegna globale “Anninovanta”, a Bologna e in altri centri dell’Emilia Romagna. Ci fu tanta amicizia tra me e la star internazionale al punto che mi chiese un “affidavit”, una testimonianza giuridica, quando fu in dolorosa causa con Cicciolina per disputarsi il figlio nato dalla loro tempestosa relazione, Maximilian. Infatti Cicciolina sosteneva che l’artista l’aveva accalappiata per sfruttarne la fama, al momento superiore alla sua propria, mentre io in fede potei dichiarare che Koons non aveva bisogno di quell’escamotage in quanto già ben noto per conto suo, come i miei stessi scritti precoci attestavano. Inoltre, se mi recavo a New York, finché lui rimase in scuderia presso la Sonnabend, non mancavano mai le visite nell’enorme studio che egli aveva a West Broadway, esteso su un intero piano, dove potevo seguire in tempo reale la sua straordinaria produzione. Poi lui è salito sempre più in alto, e io disceso sempre più in basso, però qui voglio mandargli una testimonianza di stima incessante per un suo capolavoro apparso su “Artrìbune” e del resto anche sul suo sito, “Play Doh”, opera a quanto pare di lunga gestazione, e in apparenza sorprendente, in quanto Koons in genere è artista che va alla ricerca di icone, del nostro consumismo, come detto sopra, arricchito di componenti voluttuarie, anche se l’esito è un caduta in pieno kitsch. E’ un monumentale trionfo delle gozzaniante “buone cose di pessimo gusto”, con un tripudio di bambole, orsacchiotti, altri animali da kinderheim, in una rivisitazione di quanto ci possa essere appunto di apparente “cattivo gusto”, chiamato a una fantasmagorica resurrezione. Un qualcosa che un artista autenticamente Pop dei ’60 mai e poi mai avrebbe fatto, impegnato com’era a glorificare gli oggetti di prima necessità. Però non possiamo dimentichiamo che il più estroso dei Pop statunitensi classici, Roy Lichtenstein esaurita la riserva del banale e dell’ovvio, si era avventurato sulle vie del sofisticato, e perfino dell’informale, per esempio ricorrendo al modo suo, cioè con quel puntinato che con un colpo di bacchetta magica riscattava l’ovvio dandogli nuovo spicco, ci aveva riproposto proprio le pennellate dell’Informale, dell’”action painting”. Ebbene, nell’opera di cui sto parlando anche Koons “sembra” volersi concedere all’informale più spinto, quasi a sfida di tutti gli Informali che ai loro tempi avevano sfruttato le potenzialità della ceramica, quegli ammassi amorfi ma nello stesso tempo intrisi, rutilanti di colore. Naturalmente la ceramica, dal punto di vista di Koons, è un materiale troppo “primario”, elementare, naturale, mentre questo suo riscatto programmatico dell’inutile, dell’accessorio deve essere congiunto allo sfruttamenti di materiali che siano anch’essi artificiali. In questo caso egli ricorre a involucri di alluminio, imbevuti di tutti i colori dell’arcobaleno, e dunque raggiunge un effetto di un tipico prodotto superfluo, voluttuario quale può essere il gelato. Infatti questo capolavoro si presenta come un ammasso di blocchi di gelato alla crema, al pistacchio, alla fragola, che fra l’altro sono i colori tipici del postmoderno, Inoltre, inutile dirlo, non manca il gigantismo dimensionale che di Koons è il segno tipico e irrinunciabile, e il gioco è fatto, anche questo prodotto che pare volersi collocare nei registri del disordinato e dell’irregolare rientra al contrario in un cosmo sapiente di usi intonati ai nostri bisogni attuali.