Ottima idea, quella della Pinacoteca di Brera di offririci a contatto ravvicinato lo “Sposalizio della vergine” nella versione del Perugino, collocata tra gli anni 1501-1504, e l’altra ad opera dell’allievo Raffaello, di poco posteriore. La prima è dovuta provenire da Caen, in quanto era stata oggetto di uno dei tanti furti napoleonici, da cui era stata smistata in quella località di provincia, mentre la versione raffaellesca ha avuto la fortuna di rimanere sempre in patria e di finire appunto a Brera, di cui costituisce uno dei capolavori più noti. Tutti, a cominciare dallo stesso Vasari, hanno ben visto che nella sua versione l’allievo, pur fedele e timorato per tanti aspetti, già prende le distanze dal maestro, ovvero, per dirla proprio con la preziosa terminologia vasariana, il giovane artista sta già prendendo congedo dalla “seconda maniera” del Rinascimento per avviarsi risolutamente verso la terza, detta giustamente dall’Aretino “maniera moderna” per eccellenza. C’è da chiedersi se l’Urbinate avesse compiuto quel salto con le sue sole forze, o se invece fosse già giunto a Firenze sbirciandovi le innovazioni leonardesche, per esempio affidate all’”Annunciazione”, dove finalmente la piramide prospettica non resta schiacciata sui primi piani ma si distende in lontananza. Al momento Raffaello non si impadronisce ancora dello sfumato leonardesco, e neppure dell’anatomia magnanima di Michelangelo, ma certo riesce perfettamente a dare spazio e volume ai tipi perugineschi, che invece patiscono di tutti i limiti appunto della “seconda maniera”, verso cui giustamente il Vasari nelle sue “Vite” non è certo stato tenero. La ribalta su cui è posto il tempio, nella realizzazione del Perugino, sta bassa sull’orizzonte, per la paura istintiva che lui e ogni altro artista del Quattrocento nutrivano nei confronti della lontananza. Ovvero, in tutto quel secolo si continuò a navigare a vista, senza il coraggio di salpare verso il mare profondo. Solo Leonardo, a partire dall’”Annunciazione”, risultò capace di nutrire quel coraggio, e quando accenno a una tale vera e propria rivoluzione non manco mai di proporne l’omologia con il Cristoforo Colombo che con gesto parimenti audace seppe volgere le sue tre caravelle verso l’alto mare distaccandosi risolutamente da riva. Si veda inoltre come Raffaello, nella sua versione, aggiunga al lastricato piatto una gradinata capace di dare ulteriore rilievo al tempio, cominciando anche a imprimergli una rotondità. Infatti i gradini si articolano su varie facce, così come pure l’edificio spezza la noiosa frontalità con cui si presenta il suo corrispettivo nel trattamento del Perugino. Chissà, forse Raffaello aveva già avuto sentore della svolta che il corregionale Bramante stava portando in architettura, del tutto corrispondente a quanto veniva effettuato da Leonardo in pittura. Gli edifici, a differenza che nei procedimenti proposti da Leon Battista Alberti, non sono più solo una grammatica di piani frontali che si incontrano a perpendicolo, tutt’al più tagliati da archi e da volte a botte, ma assumono una bella sfericità, intesa anch’essa ad acquisire quote crescenti di volumetria. Si veda anche come la chiesa peruginesca si appiattisca inerte, come le cappelle radiali si distendano in superficie, dimostrando anch’esse il timore di movimentare lo spazio. Insomma, è in azione un maglio che schiaccia, impedisce ai corpi, animati o no, di conquistare volume, li riporta ai valori di superficie. Il che trova conferma, passando all’esame delle figure, nello stesso sacerdote che celebra gli sponsali. Nella tavola peruginesca, esso se ne sta impalato sull’asse verticale, con la testa schiacciata sotto un pesante copricapo che è la replica o l’annuncio della staticità inerte da cui è dominato l’edificio retrostante. Invece Raffaello cerca già di animare i personaggi, e proprio il celebrante reclina l’asse e il capo sull’obliqua, magari con quei ritmi aggraziati o addirittura civettuoli cui il giovane Raffaello affida il suo impulso a muovere, a dare dinamismo alle scene. E anche le figurette in secondo o terzo piano già di dispongono in modi più naturali, non sorgono come belle statuine di un presepe ma cercano di conseguire i ritmi verosimili di una libera disposizione in scena. Si tratta insomma di un artista che già scalcia, come un feto ormai prossimo a uscir fuori e andare libero per il mondo.
Raffaello e Perugino. Attorno a due “Sposalizi della Vergine”. Milano, Brera, fino al 27 giugno. Cat. Skira.