Letteratura

Pennacchi, un raddoppio riuscito

Antonio Pennacchi non è riuscito male nel pur pericoloso tentativo di dare un seguito al suo fortunato “Canale Mussolini” che gli aveva permesso di conseguire nel 2010 il Premio Strega, meritando pure anche la mia adesione affidata a un “pollice recto” dell’”Immaginazione”. Si sa quanto è azzardato l’intento di dare un seguito a un’opera di successo, cui del resto ben raramente si ricorre in ambito letterario, mentre è consueto farlo in campo cinematografico, ottenendo però in genere i temuti abbassamenti di qualità. Vediamo quali siano gli ingredienti che consentono al nostro autore di reggere anche questa “parte seconda”. Intanto, c‘è il ruolo di un narratore in prima persona, il che, come mi è già avvenuto di osservare a proposito di romanzi da me esaminati in precedenza, avvia l’intero esercizio verso i termini dell’autonarrazione, con diritto di alimentarsi ampiamente del vero, senza andare a escogitare trame posticce, magari ricadendo nel plagio di vicende di verismo ottocentesco, come rimprovero ai vari Fois e Murgia, oppure di procedere in modi sofisticati alla rianimazione di documenti di archivio, il difetto che non mi stanco di accollare alla ditta Wu Ming. Ovviamente il vero di questo procedere non va preso alla lettera, utilmente scantona verso il verosimile, come si addice a qualsivoglia creazione di poetica, con ben lubrificato passaggio da una dimensione all’altra, e allora abbiamo i casi positivi, per esempio, di Scurati, Maggiani o infine dell’ultimo da me lodato a questa luce, Brizzi. Magari in contrappunto si potrebbe osservare che il narratore messo in campo da Pennacchi non veste panni particolarmente felici, in quanto si tratterebbe di un membro uscito dalla mitica famiglia dei Peruzzi, ma deviato verso un non credibile obbligo di entrare in seminario e di farsi prete, il che ovviamente non corrisponde ai dati anagrafici dell’autore. Ho appena detto che un simile scarto è salutare, però sarebbe anche bene che non ci fosse una divaricazione eccessiva tra le due figure, come invece così avviene. Ma di nuovo questa assunzione di una voce narrante dall’esterno ha i suoi lati buoni, in tal modo riesce verosimile che l’intera ricostruzione dei fatti ci sia veicolata attraverso un suadente dialetto veneto, che come si sa dalla prima prova è quello dell’Altitalia, da cui i Peruzzi sono stati spinti a emigrare per andare a colonizzare i paesi dell’Agro pontino.
Ma soprattutto conta che ad animare la vasta saga storica, a inserire buoni nuclei di verosimile romanzesco, entrino i vari membri della famiglia, colti con le loro peculiarità straordinarie, eccessive, al limite del caricaturale, da burattini che animano davvero felicemente la comune ribalta. Tra questi, spicca il personaggio numero uno, Diomede, che nasce subito con i segni della disgrazia, della menomazione scostante, ma pronta a tramutarsi in possibilità di riscatto. Diomede infatti è rosso di capelli, e soprattutto possiede un membro grosso e prolungato come un batacchio di campana, ovviamente tradotto subito in versione dialettale e detto Batocio. Figura a un tempo demenziale, ma anche piena di astuzia contadina, come un Bertoldo rinato, che ci compare subito in un’azione spregiudicata, alla testa di una combriccola che sfrutta un bombardamento degli Alleati da cui è scoperchiata la sede locale della Banca d’Italia, a Littoria, poi destinata a prendere il nome di Latina. In tal modo la banda dei malviventi improvvisati può trafugare, a carrettate, un carico prezioso di banconote, italiane e straniere. C’è nella gremita, affollata vicenda un asse privilegiato costruito attorno al Batocio, sempre in bilico tra la vergogna di quell’organo sessuale avvertito come una colpa come una menomazione, e invece l’astuzia, l’abilità di mosse, la fortuna che lo sorreggono, dandogli una specie di immunità, così da passare indenne quando gli Alleati sbarcano ad Azio, mentre muore la figura di un tenentino tedesco, a lui carissima, cui forse lo lega un vincolo omosessuale. Infatti il Batocio funziona in un senso e nell’altro, nell’esercitare l’attrazione insita in quella sua dimensione spropositata, il che introduce anche al “cerchiobottismo” dell’autore, che come già era avvenuto nell’opera precedente non vuole distinguere tra buoni e cattivi, tesse le lodi e le infamie di cui in quegli anni durissimi si sono macchiati volta a volta nazisti, fascisti, partigiani, Alleati. Così come anche gli abitanti di quel Piccolo mondo antico, ma in via di farsi moderno a rapide tappe, si dividono tra cinismo, egoismo nel fare i loro affari, o improvvisi afflati di umanità. Beninteso il Batocio è solo il capostipite d tutta una serie di figure analoghe, ciascuna sorpresa nei suoi tic, vizi, presunzioni, inimicizie. L’autore è bravo nel far pullulare la vicenda inserendovi tanti comprimari, proprio come sollevare un masso e mettere a nudo un brulichio di insetti, subito pronti ad agitarsi confusamente. Forse egli eccede perfino, in questa spinta a moltiplicare le presenze, a diramare gli alberi genealogici delle varie famiglie con una folla di figli e di figli dei figli, di cui si perde il conto.
Ma anche così, Pennacchi deve essersi accorto che non ce la faceva, a sostenere adeguatamente questa sua prestazione bis, se non a costo di rendere stucchevole l’affollarsi di figure minori, come in un presepio troppo animato. E allora ha fatto ricorso a un trucco quasi da confezionatore di scatole di cioccolatini, quando tra uno strato e l’altro si va a collocare una spessa imbottitura chiamata solo a fare volume. Fuor di metafora, il nostro autore ha riempito una buona metà dell’opera ripercorrendo i fatti della nostra storia dalla caduta del fascismo su su fino ai nostri giorni, in una ricostruzione che non avrebbe nessun merito di originalità, ma confermerebbe pari pari l’imparzialità, o diciamo meglio il cerchiobottismo dell’Autore, pronto a celebrare le lodi sia di De Gasperi che di Togliatti. Però si deve ammettere che pure su questa parte, in sé abusiva, come di uno scolaretto che per riempire il suo diario (vedi il caso di Giamburrasca) vi infila pagine e pagine rubate da qualche testo altrui, scatta il beneficio della patina dialettale, come se cioè Pennacchi si trasformasse in un cantastorie che ci narra fatti fin troppo noti, ma con gradevole cadenza popolare. Non presenta tracce di originalità interpretativa neppure la morte di Mussolini e della Petacci, col finale di Piazzale Loreto, e l’insistere sul particolare che Clara non aveva le mutandine e dunque il suo cadavere metteva a nudo in modo orrido le sue pudende. Sarebbe tutta una sequenza da giudicarsi appunto alquanto pretestuosa e abusiva, sennonché con un colpo di reni l’Autore sa ricavarne un effetto originale, quando ci riporta sulla scena del piccolo mondo antico, ma ormai slanciato sulle vie del boom, della crescita del comune livello di vita. A questo punto ritroviamo il Batocio, pronto di nuovo a deliziarci con le sue mosse abili e incredibilmente fortunate. Però la sua esistenza non è fatta solo di successi e affermazioni, ma anche di incubi, e tra questi assistiamo al ritorno della Petacci come fantasma, che attende al varco il nostro Diomede, la cui esistenza insiste fino all’ultimo a coniugare una doppia valenza: da un lato, è il benedetto dalla sorte, forse proprio per quel membro eccessivo, sua croce e delizia, ma da un altro, risulta essere la prima vittima della sua stessa fortuna, il che lo porta, col passare degli anni, ad affondare in uno stato di confusione mentale, assediato proprio dal ritorno dei fantasmi del passato, tra il pubblico e il privato, e tra quelli della prima serie aleggia, lo inquieta, lo assedia proprio la Petacci, ritornata sul luogo dove pare che avesse consumato col suo Benito qualche momento di amore appassionato.
Antonio Pennacchi, Canale Mussolina parte seconda, Mondadori, pp. 425, euro 22.

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