Sono ben lieto di constatare che Roberto Pazzi, con questo recente “Lazzaro”, è rientrato in pieno nei panni di principale esponente, presso di noi, di quella che Spinazzola chiamerebbe una “New Italian Epic”, ovvero una narrativa data alla citazione del passato, un ambito in cui il narratore ferrarese presenta sostanziosi vantaggi rispetto al collettivo Wu Ming, cui, nonostante io sia legato a loro dalla comune cittadinanza bolognese, sono meno propenso a dare pieni voti. Questa sua posizione dominante Pazzi se l’è conquistata di primo acchito, con la fortunata opera prima, in ambito narrativo (dato che ne ha pure una di poeta cui tiene molto), “Cercando l’imperatore”, di più di trent’anni fa. Lo aveva scoperto Giovanni Roboni, ma non trattenendosi dall’accompagnare il giudizio positivo con la triste profezia in lui molto usuale, fatta scattare perfino contro il Moravia degli “Indifferenti”, che i tanto felici iniziatori non sarebbero più stati capaci di eguagliare, non diciamo superare, tanto estro. Invece Pazzi ha proceduto impavido su quella medesima strada snocciolando ulteriori capolavori, come per esempio “Conclave”, del 2001, che poi è stato in sostanza plagiato, senza che il fatto allora sia stato sufficientemente segnalato, dal pur ben riuscito film di Nanni Moretti, “Habemus papam”, di dieci anni dopo. Naturalmente Pazzi, industre ape operaia, ha continuato a ingrossare la sua arnia, ma forse per un momento disperando che valesse ancora la pena insistere su questa chiave di culto del passato, in una sua prova recente, “La trasparenza del buio”, si è avvicinato, sempre per stare alle categorie opportune messe in campo da Spinazzola, a un New Italian Realism, sfornando la vicenda di un professionista dei nostri giorni che maschera con impaccio la sua omosessualità. Ora, a dire il vero, non è che abbia recuperato vicende del passato, si è ispirato a una realtà dei nostri giorno, capace però di affondare già nel mito, o di recuperare canovacci di antica consistenza. Protagonista è tale Alberto Cantagalli, che si mette in testa di fare il vendicatore della democrazia repressa da un tiranno in vesti di stretta attualità, in cui si intravede agevolmente la figura di Berlusconi, ma con tanti opportuni accomodamenti. Intanto, si tratta di un uomo politico andato fino in fondo, presentato a noi nella veste di dittatore, quasi di vecchio imperatore romano profondamente corrotto che dalla reggia, un palazzo sull’Esquilino, domina le sorti del nostro Paese, come un dittatore della genia sudamericana. Infatti non so se Pazzi abbia avuto presente un capolavoro di Garcia Márquez quale “L’autunno del patriarca”, ma questa definizione calza a pennello al Leo Bonsi, chiamato ad adombrare il preteso dittatore nostrano. Bonsi, nonostante l’enorme potere che amministra, è oberato da mille mali, costretto a vivere in carrozzella, praticamente prigioniero di una squadra di guardie del corpo che lo aiutano nelle misere bisogne quotidiane, e perfino soddisfano alle sue voglie erotiche. Infatti, trattandosi di giovani robusti e in piena maturità sessuale, costretti a convivere col tiranno malandato, hanno strappato da lui il diritto di portare nel medesimo conclave anche le compagne. Il tiranno-patriarca ha aperto dei pertugi che gli permettono, nottetempo, di darsi a un avido voyeurismo, a spostarsi cioè di stanza in stanza per contemplare gli amplessi di quella sorta di figlioli adottivi, ammirandone le prestazioni erotiche, siano esse di specie etero oppure omo, la cosa, per la bramosia del vecchio impotente, non fa differenza. Naturalmente l’Autore si è ispirato alle “cene eleganti” cui il padrone di Mediaset si è dato in anni recenti, però avvalendosi in pieno del diritto di portare la vile realtà su un piano romanzesco calcando la mano, irrobustendo gli effetti. Certo è che tanta corruzione e miseria spirituale arma la mano omicida del Cantagalli, provvisto di revolver Berretta con cui si reca a Roma e comincia una attenta sorveglianza sulla sua vittima, fiero di sentirsi all’altezza dei grandi regicidi del passato, dal Gavrilo Princip che a Sarajevo uccide l’erede dell’impero austriaco provocando la prima guerra mondiale, fino a Lee Oswald, cui si attribuisce l’uccisione di un monarca dei nostri giorni quale Jack Kennedy. Fin qui parti nette, ben distribuite nel recitare i rispettivi copioni, nettamente contrastanti, ma poi il narratore imbroglia le piste, e a questo punto davvero agisce in lui il citazionista, talvolta portandolo anche a esiti incerti, che forse sfuggono anche alla mia comprensione. A cominciare proprio dall’inserimento della figura evangelica di Lazzaro, che dopotutto dà il titolo all’intera storia. La parabola evangelica viene qui percorsa alla rovescio, in quanto Gesù non riesce a resuscitare l’amico. È come un mettere le mani avanti, annunciare che l’intera vicenda sfumerà i suoi lineamenti? Forse Pazzi capisce che deve saltar fuori dalla trama impostata, la storia, la cronaca, la testimonianza dei fatti non gli danno spazio, nessuno ha sparato a Berlusconi, pardon a Bonsi. In definitiva, il Nostro riedita la lontana ma magica vicenda degli esordi. Anche là, qualche lettore forse lo ricorda, un pugno di armati fedeli allo Zar prigioniero dei bolscevichi tenta di raggiungerlo a marce forzate, ma ben capendo di non farcela su un piano di realtà fisica, spiccano il volo, e vi giungono solo sotto forma di uccelli. Anche qui succede qualcosa del genere, l’attentatore, colpevole di indugi, di irresolutezza, prende anche lui il volo, per meglio tenere d’occhio la propria vittima, e procede a questa metamorfosi in due modi, sia mutandosi in una ripugnante mosca, in omaggio al Golding del “Signore delle mosche”, e così manifestando tutta la crudeltà insita nel suo stesso proponimento. Ma in alternativa assume l’immagine tenera, fragile, infantile di Teresa, che è nello stesso tempo la santa protettrice ma anche la fanciulla insidiatrice della “gentil farfalletta”. Noi lettori potremmo anche rimanere delusi, defraudati della speranza che l’intero romanzo procedesse verso uno scioglimento finale, verso una catastrofe di specie tragica, con soppressione dell’immondo Leo, che poi a conti fatti corrisponderebbe a uno “happy end”. Ma forse a procurare questa soluzione ci pensano le stesse forze istituzionali. Infatti un inopinato rigurgito di potere democratico manda la polizia ad arrestare il genio del male per le sue troppe malefatte, e dunque l’insetto ronza a vuoto. In definitiva il nostro narratore non può sottrarsi alla vecchia saggezza secondo cui “i sogni muoiono all’alba”.
Roberto Pazzi, Lazzaro, Bompiani, pp. 211, euro 17. E anche ristampa di Conclave, pp. 274, euro 10