L’intera opera di Luca Maria Patella (1934) sta a dimostrare quanto sia vana o addirittura dannosa la pretesa di porre al centro di tutte le avventure recenti l’Arte povera, con i suoi undici protagonisti ufficiali, visto che in questo elenco canonico non possono essere formalmente collocati Patella appunto, e assieme a lui tanti altri outsider, a cominciare da talune presenze romane allora in pieno servizio come Eliseo Mattiacci e i Dioscuri De Dominicis-Vettor Pisani, senza dimenticare altre favolose partecipazioni al Nord come Vincenzo Agnetti, Franco Vaccari, Claudio Parmiggiani, un complemento obbligatorio a disegnare l’intera squadra degli artefici della rivoluzione sessantottesca, l’ultima compiuta in Occidente, prima di passare la parola ai Paesi emergenti delle altre parti del mondo, ma messi in orbita proprio grazie ai lasciti ricevuti da questi nostri illuminati operatori, in piena sintonia, e talora addirittura in anticipo, rispetto ai confratelli attivi al di là dell’Atlantico. Una recente mostra al MACRO di Roma, tra le tante che Luca imbastisce con insistente tenacia, ha permesso di ripercorrere le sue imprese premonitorie compiute nel periodo 1964-84. La mostra è conclusa da tempo, ma solo ora ne esce il catalogo. Giustamente Patella si vanta di un riconoscimento ricevuto poco tempo fa negli USA, quale anticipatore della Land Art, quando appunto, in compagnia della moglie Rosa, si dava a misurare con riporti fotografici delle estensioni di terra arata, quasi a dimostrare l’inanità dell’intervento umano rispetto all’immensità della natura. Tanto più che accanto alla misurazione della terra ci poteva stare anche quella delle distese d’acqua, magari con ingigantimento di un mare di bollicine, a donare un delizioso contrappunto, un arabesco, alle chiacchiere che intanto Luca poteva scambiare a tavolino con qualche amico. Uno dei meriti costanti dell’azione del Nostro è stata la capacità di rovesciare i suoi interventi da un carattere di materialità esasperata a uno opposto di incantamenti magici, ottenuti quasi con qualche atto stregonesco, con qualche colpo di bacchetta magica. E così, la terrestre Land Art si è espansa lungo le vie della volta cosmica, trapunta di astri con le loro traiettorie, da cui si potevano ricavare delle calotte astronomiche spaccate in due come un frutto giunto a maturità. E beninteso, a dominare simili itinerari astrali venivano posti i due signori di questo universo incantato, lui stesso e Rosa, assunti in cielo, come stelle fisse accanto a tanto peregrinare di corpi celesti. Naturalmente Luca è sempre stato convinto che i nostri poteri di dominazione fisica dell’ambiente dovessero essere integrati dalle risorse tecnologiche, ed ecco quindi la perfetta unione tra la presenza bruta-materiale di alberi o muri e il miracolo di renderli parlanti. Basta avvicinarsi a loro, tendere l’orecchio per ascoltare lo sgorgare, da nascoste cavità, di arcani messaggi, anche in questo caso con netto anticipo sui borbottii che poi lo statunitense Oursler avrebbe fatto uscire dai suoi gnomi video-proiettati su tavolini e schienali di poltrone. Far parlare il caso, renderlo portatore di messaggi, questo un compito lungimirante da sempre perseguito dal nostro Luca, e affidato in particolare all’illusionismo sapiente dei “vasi fisionomici”, a prima vista delle coppe di fasto antiquato, tratte da un museo di porcellane o di altri preziosi cimeli del buon tempo antico, con ostentazione di profili arcuati, sinuosi, ondulati, ma poi con sorpresa vi si decifrano i tratti fisionomici di persone che magari conosciamo bene, magari compare perfino il nostro ritratto. E beninteso ad aprire la sfilata ci sono loro due, Luca e Rosa, in una congiunzione che celebra il sogno androgino coltivato dai miglior talenti novecenteschi, Duchamp per le arti visive, Musil per la letteratura. Altro aspetto fondamentale della officina patelliana, lo sconfinamento verso tutti i settori della ricerca estetica, il visivo prima di tutto, ma subito accompagnato dalla sonorità dei messaggi uscenti da alberi e muri, e poi l’alfabeto, sollecitato a esprimere tutte le associazioni possibili. C’è in Luca, accanto all’operatore visivo, uno scrittore che anche in questo campo segue le ricette più avanzate, quali dettate dall’ultimo Joyce del “Finnegans Wake”, dove ogni parola del vocabolario si spezza, come un verme segmentato, svolge da sé tanti mozziconi che se ne vanno via in libertà catturando sensi ulteriori. Io stesso, nel 1975, ho avuto la ventura di tenere a battesimo, presso la Nuova Foglio, uno di questi volumi, “Io sono qui, avventura e cultura”, colmi di ogni saggezza e capacità di metamorfosi, di fuga verso l’altro, di cattura di sensi riposti: un tipo di esercizio che in Luca diventa qualcosa di quotidiano, tale da richiedere emissioni periodiche, al punto da pubblicare una sua propria Gazzetta Ufficiale, in totale contrappunto rispetto a quella che esce a cura dello Stato, orrido coacervo di sentenze burocratiche, mentre l’antifrastica Gazzetta di Luca è invece una palestra continua di ogni esercizio immaginativo, di ogni creazione ad angolo giro, rivolta verso tutti i punti dell’orizzonte, dei sensi, dell’intelletto, dell’immaginazione.
Luca Patella. Ambienti proiettivi animati 1964-1984, a cura di B. Carpi De Resini e S. Chiodi, Quodlibet, euro 22.