Oggi faccio eccezione all’abitudine di accoppiare ogni settimana a un intervento sull’arte uno dedicato alla narrativa, non avendo sottomano nulla di valido in questo settore, mentre mi si offre un caso di straordinaria evidenza per illustrare ulteriormente quanto ho affidato ai miei Protagonisti. Si tratta della mostra di Giulio Paolini in atto presso la Galleria Bonomo di Rona, filiazione della sede di Bari in cui abbiamo visto apparire tanti artisti tipici di stagioni passate. Paolini è un eccellenete campione della seconda fase, per dirla secondo lo schema ternario che ora vorrei adottare al seguito di Hegel. Egli rappresenta al meglio quella virata che, pur nel seno del concettuale, dell’arte povera e simili, insomma delle tipiche concezioni del ’68, ha impresso una svolta verso, diciamo così, una specie di “arte ricca”, che si compiace di saccheggiare il museo. Ma nello stesso tempo Paolini non viene meno alla consegna do quei tempi, tenendosi ben lontano dall’adottare il colore, ragione per cui non ho potuto prenderlo, nel mio saggio, come perfetto campione dell’antitesi, quali invece mi sono sembrati Ontani e Salvo, che si sono spinti più in là, non avendo paura di sfociare in un colorismo qualche volta addirittura sfacciato, ma mai dimentio di quelle vecchie sponde da cui prendere le mosse, il che li fa perfetti campioni dell’antitesi, molto diversi quindi da Katz, Hockney, Murakami e via elencando cioè da quegli artisti che pur adottando apertamente il colore, lo fanno in modi leggeri, senza cadere nella citazione di un qualche passato. Paolini si ferma alle soglie di un traguardo del genere, il che non vuole affatto implicare una diminuzione di valore per la sua arte, ma solo segnalare il caso assolutamente straordinario di un artista che certo si avvia sulla strada del richiamo del museo, ma mantiene una invalicabile riserva sulla possibilità do adtare un colorismo pieno. Proprio nell’opera della mostra romana di cui dispongo certo c’è un perfetto ricorso alle armi di cui l’artista torinese sa cos’ bene fare uso, visioni di statue, frammenti buttati all’aria, come di un collezionista che mette in voluto disordine le sue carte, o getta i dadi per una sapiente giocata. E tra questi sapienti enigmi e misteri disegnati con rigore appaiono pure note di colore, che però si fermano al ricorso all’azzurro, che è come una concessione minimale. L’azzurro fa fare appena un piccolo passo in avanti rispetto al candore della pagina bianca, più cara a Paolini per la sua indubbia eredità dal concettuale, C’è’ in lui come uno sbarramento che lo ferma nella scala cromatica, non gli permette di effettuare passi risoluti in avanti, lo ferma a mezza strada, appunto a un azzurro pallido, ammalato proprio di concettualismo, nel che, beninteso, sta una delle ragioni du fascino proprie di queste opere. Insomma, una via di mezzo tra tesi e antitesi, il tutto ben lontano dalle sintesi che oggi ci propongono artisti ben più risoluti, ance perché tallonati dall’esigenza di andare oltre quanto hanno fatto i loro immediati