Finalmente si possono visitare le mostre, non più da lontano. Ne ho approfittato per andare a vedere l’Orazio Borgianni allestito a Roma, Palazzo Barberini, ma restano tuttavia inutili divieti che ho potuto aggirare per la gentilezza dell’addetta stampa Maria Bonmassar, incontrando addirittura il curatore della mostra, Gianni Papi, il che mi ha fatto sentire a disagio, data la mia scarsa competenza in materia, Ed ero pure sovrastato da un’ottima recensione dedicata a questo artista dal migliore dei nostri “modernisti”, Antonio Pinelli, mio lontano compagno d’infanzia di cui ho assistito alla crescita negli anni, dall’alto di una notorietà acquisita prima di lui, poi le parti si sono invertite, e io sto calando senza fine mentre lui brilla alto sull’orizzonte. Ma questo prologo in definitiva è una “captatio benevolentiae” per scusare un mio giudizio non grandioso, infatti comincerei col contestare il sottotitolo dato alla mostra, mi sembra eccessivo definire il Borgianni un “genio”, caso mai lo direi solo un “ingegno”, ma certo vale quanto segue, certo fu un “inquieto”, e visse in quella straordinaria stagione romana del primo Seicento, all’ombra del Caravaggio: Ma che dire dei molti talenti che furono assieme a lui a movimentare quegli anni, un Gentileschi, un Serodine, un Saraceni, per non parlare dei venuti dopo di lui, i Vouet, i Lanfranco, e ci sta pure il Cagnacci, magari poteva meritare una comparsa anche il Guercino. Fra cotanto senno, manca al Borgianni un andamento stilistico chiaramente riconoscibile e coerente, anche se ebbe l’ammirazione del Longhi, ma si sa bene che personalmente, mentre ammiro Longhi per tanti contributi eccellenti, non lo ritengo del tutto accettabile per quanto riguarda proprio il dossier caravaggesco. Del resto il mio amico Alfredo Giuliani , poeta e critico letterario, diceva che ogni grande critico ha il diritto di concedersi qualche “minore”. Un titolo di grandezza indubbia del nostro artista sta nei ritratti, quelli immaginari dedicati a personaggi mitici dell’antichità, vedi Eraclito, o a se stesso, nei due autoritratti che si dedica, genere se non sbaglio non troppo frequentato dai suoi confratelli. Dunque, c’è in lui una indubbia eccellenza quando si misura da vicino, nei primi piani, ma poi ha la tendenza ad arretrare per dar luogo a visioni gremite di presenze, magari ognuna di esse colta dal vivo, avvolta in vaporose chiome, con un giusto chiaroscuro, non necessariamente di stretta discendenza caravaggesca. Forse il capolavoro è la “Sacra famiglia con S. Elisabetta e S. Giovannino”, in cui la culla del pargolo è un portento di policromia, fatto come di tanti ritagli ognuno dei quali pretende di spiccare con una propria autonomia, il che del resto corrisponde a quel saltar fuori di prepotenza da un muro di ombre che connota, qui è altrove, i vari personaggi, quando sono ripresi da lontano. Un dato biografico che ribadisce la difficile collocazione dell’artista è la morte abbastanza precoce, nel 1616, a pochi anni di distanza dalla in definitiva per lui disturbante presenza del Caravaggio. Non sappiamo cioè per quale strada avrebbe continuato, se avrebbe partecipato anche lui a quella sterzata verso una pittura classicheggiante di cui furono protagonisti alcune illustri autori dell’epoca, dallo Spagnoletto al Guercino al Vouet. La sua insomma è una presenza sfrangiata, policroma, sfaccettata che vale ad arricchire una grande stagione fondamentalmente polifonica, con un solo sicuro direttore d’orchestra, il Merisi.
Orazio Borgianni, a cura di Gianni Papi. Roma, Palazzo Barberini, fino al 30 novembre, catalogo Skira.