Da quando Giacomelli ha lasciato Artribune anch’io ho smesso di ìi collaborare, pur non sapendo le ragioni di quella rinuncia, quindi non compariranno più i miei necrologi dedicati a colleghi che se ne sono andati, Deferisco un tale compito al mio blog, pur non ignorando quanto poco sia seguito. Non posso quindi rinunciare a commemorare come si deve Luca Patella, più anziano di me di un anno (1934), d’altra pare c’è chi ha preso il mio posto, ho visto sulla rivista un eccellente ritratto dell’estinto a firma Alberto Fiz solo pochi giorni fa. Tutti ovviamente celebrano il carattere poliedrico di Luca, che si è cimentato in tutti i possibili mezzi di comunicazione, in genere riuscendo a stupirci, a colpirci di sorpresa, fin da quella mossa iniziale che lo ha visto, con l’aiuto della moglie, sempre sua fida collaboratrice, affrontare il compito, tra il concreto e il virtuale, come è sempre stato il suo destino, di misurare dei campi, quasi anticipando la Land Art, Ma i capolavori assoluti di Luca sono stati la parete prima, e poi l’albero parlanti, in quanto provvisti di un piccolo registratore pronto a snocciolare una qualche storia, Del resto il parlare e scrivere sono sempre stati tra le caratteristiche quasi istituzionali di Luca, per questo verso posso vantare il merito di avergli fatto pubblicare il libro Io sono qui, avventura e cultura presso la Nuova Foglio di Macerata, dove ho fatto uscire anche la testimonianza della brillante operazione condotta da Franco Vaccari alla Biennale di Venezia del ’72, Questa può essere anche una ragione di colpa, non averlo ammesso a quella stessa Biennale del ‘72, nella sezione del comportamento, ma mi dovevo già fare carico dei casi affini dell’appena menzionato Vaccari nonché di De Dominicis, con i quali quasi saturavo le cinque caselle a mia disposizione, e dovevo pure lasciare uno spazio ai Poveristi. Anche se in merito posso ribadire una mia perentoria asserzione, che è stato un errore storiografico di quasi tutta la critica italiana, con un inevitabile riflesso in quella internazionale, nel voler concentrare solo nell’Arte povera tutto il buono che l’Italia ha saputo produrre in quegli anni, Ma dove li mettiamo i Patella, e Vettor Pisani, e De Dominicis, e Mattiacci, solo per restare nell’ambiente romano? Del resto Patella è sempre stato vario e imprevedibile, tra le testimonianze vivide del suo talento sta una versione dei Vasi testimoniali, nei cui profili, si possono riconoscere i tratti personali del dedicatario, ed è un peccato che io non abbia avuto il tempo o la volontà di registrare le sue lunghe telefonate in cui in vista di qualche mostra egli magnificava le sue virtù, o le affidava lunghi scritti, che erano già una testimonianza del suo brillante giocare con le parole ricavandone ogni possibile succo, a cominciare da quella stessa patella che si imponeva col suo cognome, brillante nozione che egli traeva dal profondo oceano della parola, aggiungendovi la capacità di riscontri col visivo. Insomma, un intero universo in perenne movimento e fase di mutamento per sfruttare le mille possibilità di incrocio, di attraversamento, di echeggiamento, di rifrazione. Nulla da perdere, tutto valido per essere recuperato e rilanciato nei modi più appropriati.