In genere ho nutrito qualche sospetto quando un artista, emerso in un genere, per esempio nel canto, ha voluto conseguire un riconoscimento anche in campo letterario, ma spesso ho dovuto ricredermi, e proprio su questo blog credo di aver detto bene dei racconti sia di Giuliano Sangiorgi, alla testa dei Negramaro, sia di Luciano Ligabue, secondo rispetto al grande campione Vasco Rossi, Ora nell’apprezzamento devo aggiungere anche Malika Ayane, che prima di tutto mi piace come cantante, o ancor più per il suo modo di stare in scena, con quelle mani pronte a insinuarsi come fossero serpentelli vivaci, e anche con quel tocco di varietà etnica che le viene dal padre marocchino. Ma ora lodo suoi racconti di Ansia di felicità, brani di vita in presa diretta, tra mali oscuri, noia dell’esistenza, scorpacciate di alcol e droga, amori temporanei e deludenti, o invece capaci di donare sprazzi di felicità. Un misto che mi ricorda le grandi poetesse del nostro Cinquecento, quali Vittoria Colonna e Gaspara Stampa, anche se beninteso Malika si attiene strettamente a un linguaggio in prosa. Del resto, la sua stessa condizione di nata per lo spettacolo la mette quasi a un passo con quelle sue antenate grandi amatrici, talvolta quasi per professione. Per sua fortuna l’attuale progresso della condizione femminile dà a Malika la possibilità di decidere liberamente quali partner vuole assumere, ma pronta anche a sbarazzarsene. Insomma, un cronaca vivace, che ancora una volta si vale della buona virtù non diciamo neppure del racconto, dato che a questo livello non pretendono affatto di giungere questi brani, ma l’efficacia di sentirsi liberi, di non trascinarsi dietro come lumache le dure corazze di trame o di costrutti episodici, libere come l’ari di darsi a un vibrante chiaroscuro di stati d’animo rapidamente cangianti, come del resto rivela l’ossimoro del titolo, Ansia di felicità.
Malika Ayane, Ansia di felicità, Rizzoli, pp. 176, euro 17.