Negli ultimi tempi sono stato quasi un becchino ufficiale nel commemorare, su “Artribune”, l’utile gazzettino on line circa i fatti dell’arte, i molti coetanei, ottuagenari come me, via via scomparsi, per i quali era giusto far risuonare la famosa campana di John Donne e di Hemigway, coinvolgendomi nel suo lugubre suono. Non mi è riuscito di svolgere un simile ruolo nel caso di Lucio Del Pezzo (1933), essendo stato preceduto, per così dire alla prova del pulsante, da un pezzo ottimamente informato di Alberto Fiz. Ora rimedio con questo commento privato, che forse giungerà alla famiglia dell’estinto in sostituzione di un telegramma o di un biglietto di condoglianze. Del Pezzo è stato uno dei tanti intellettuali che hanno rappresentato il triste fenomeno di una Napoli, di un Mezzogiorno, fertili al massimo di talenti, condannati però a emigrare a Nord, Roma, Milano, Torino, in cerca di miglior fortuna. Una emigrazione che ha riguardato narratori come La Capria, poeti come Bajino, Cepollaro, Ottonieri, Voce, e infine un nutrito numero di artisti, tra cui appunto Del Pezzo, e pure Bruno di Bello, scomparso anche lui di recente. La generosità di Napoli si esplica in quel fenomeno, apotropaico, propiziatorio, che si compie nella notte di Capodanno, quando dalle case piovono sulla strada tutti gli oggetti di un trash domestico. Gli eventuali turisti vengono avvisati, di tenersi discosti dai muri per non essere investiti da questa pioggia, che è anche una cornucopia, come avevano ben avvertito i membri del Gruppo 58, capeggiati da Luca Castellani, e inclusivo pure di altri come i due appena ricordati, assieme a Guido Biasi, Mario Persico, Sergio Fergola, forse, se non sbaglio, l’unico ancora vivente. In fondo, i membri di quel sodalizio erano stati quasi gli anticipatori del fenomeno che in Europa e Nord America sarebbero stati il Nouveau Réalisme e il New Dada, cioè un avvalersi degli oggetti, ma lasciandoli in preda a un pittoresco disordine, ancora di matrice informale. Del Pezzo però aveva avvertito un bisogno istintivo di dare ordine a quegli apporti sparsi, e per questo se ne era andato a Milano, al pari di Di Bello, e potremmo menzionare anche un’altra illustre esule per gli stessi motivi, Lea Vergine, che lascia la matrice partenopea per seguire il fascino tetragono in cui era avvolto il design di Enzo Mari. Anzi, per il nostro Del Pezzo Milano è ancora insufficiente, a soddisfare il suo bisogno di ordine, e per qualche anno punta deciso su Parigi, trovandosi accanto un altro esponente, ma di nascita indigena, Valerio Adami. Questa loro opzione cis-e trans-alpina li porta a svolgere un capitolo di Pop Art in piena dissidenza rispetto a quella romana, che invece punta decisa sui modelli statunitensi. I nostri due, con quel bordeggiare tra Milano e Parigi, si espongono addirittura al sospetto di non rispondere ai caratteri di una Pop Art vera e propria, tanto da essere lasciati ai margini di quel movimento, tra chi li annette e chi no. Ci fu però, a loro favore, l’inclusione convinta da parte del gallerista Giorgio Marconi, che tuttavia, tanto per ristabilire un equilibrio, mise in squadra anche il campione numero uno della Pop di rito romano-statunitense, Mario Schifano. Ma ritorniamo al nostro Del Pezzo, che in fondo non aveva cancellato del tutto il gesto liberatorio napoletano di disfarsi di tutta la zavorra domestica. A quel gesto egli aveva come applicato una moviola girata in senso contrario, riportando le “buone cose di cattivo gusto” a un loro statuto d’origine, quando erano cornici per banali illustrazioni, o amuleti portafortuna, o stelle propiziatorie e così via. Bisognava rimetterle a nuovo, riverniciarle, ma soprattutto esporle per ordine, come in un diligente casellario. Nello stesso tempo bisognava lasciar loro anche un tratto intrinseco, il rilievo, una consistenza tridimensionale, anche se impediti di reggersi appieno nello spazio, meglio appoggiarlo alle pareti. Nel che, i sospettosi del dover ammettere l’esistenza di una Pop Art in salsa ambrosiana potevano contrapporre gli esempi ben più calzanti e pienamente autonomi, quanto a rilievo plastico, delle due punte della Scuola di Piazza del Popolo, Pino Pascali e Mario Ceroli, accusando i rivali del Nord di fermarsi a mezza strada nel proposito di dare piena autonomia all’oggetto “popolare”.
Un simile limite della “mezza misura” poteva valere anche in un caso eminente del clima milanese, quale rappresentato dai fantocci molto folclorici, e senza dubbio “popolari”, di Enrico Baj. A sua difesa Del Pezzo poteva vantarsi di essere un continuatore di De Chirico, nel senso di osare di dare rilievo alle sue visioni di cornici, inzeppate le une dentro alle altre e pronte a ospitare un repertorio di ostentato kitsch. Insomma, in formula, dobbiamo a Del Pezzo una sorta di Metafisica in formato “popolare”, tutta dedita alla celebrazione del “cattivo gusto”, ma irrobustito da una forte capacità plastica di sporgenza dalla superficie. A questo punto devo confessare un mio torto. Non so per quale ragione, quando nel 1974, e proprio nella Galleria di Giorgio Marconi, allineai i casi di “ripetizione differente”, di recupero del museo, ma nel rispetto delle esigenze del momento, tra la Pop Art e il Concettuale, non so per quale ragione non includessi nella pattuglia anche il caso di Del Pezzo. In seguito mi sono pentito di quella omissione, e in tante successive testimonianze ho assegnato a Lucio il posto che gli spettava.