Siamo alle solite, il Comune di Bologna è del tutto dimentico che esista un obbligo di fare mostre, come ha ben mostrato l’attuale sindaco Lepore, che quando in precedenza è stato assessore alla cultura, bravo chi riesce a indicare una sola mostra da lui organizzata. Bologna rimedia a fatica ai suoi doveri morali. Il centenario di Bendini, visto che i musei più reputati si sono rifiutati di accogliere la mostra fatta in suo onore dalla GNAM, a Roma, ha avuto almeno un limitato ricordo a cura di Sandro Malossini, nello spazio che gli assicura il Consiglio della Regione Emilia-Romagna, Il centenario del coetaneo Bruno Pulga viene ora ricordato attraverso i dipinti che la famiglia dell’artista ha donato alla Fondazione Carissbo, la quale da parte sua non ha esitato a mandar via Fabio Roversi Monaco, fondatore di un incredibile sistema museale. Ora, in uno degli spazi da lui conquistati con le unghie, quello soprastante la Chiesa della Vita, viene allestito appunto un ricordo di Pulga. Ma forse sarebbe ora che Bologna dedicasse un omaggio globale al suo maggior critico e storico d’arte del secolo passato, Momi Arcangeli, ricordando in primis le sue tre “M”, Moreni, Morlotti, Mandelli, e subito dopo i quattro, venuti un decennio dopo, detti in ordine alfabetico Bendini, Ferrari, Pulga, Vacchi. Fu la loro, in linea generale, una rivolta contro il dominio di Morandi sulla nostra città, con un Arcangeli straziato tra la lealtà verso Morandi, da lui sentito come un padre spirituale, con accanto l’altro suo padre emerito, Roberto Longhi, e invece l’obbligo di dare riscontro ai fermenti di un nuovo avanzante, anche se lui cercava di farlo passare sotto il vecchio termine di naturalismo, ma non c’era da sbagliarsi, in pentola bollivano i fermenti della stagione informale, quella da Tapié detta dell’ art autre. Magari quei quattro moschettieri all’inizio avevano qualche risetto verso la precedente stagione del post-cubismo, con cui la seconda metà del secolo, subito dopo la Liberazione, si era aperto, ma i fusti di alberi che magari in una prima versione nei dipinti di Pulga si presentavano alquanto segaligni, venivano subito ricoperti da una consistete peluria di verdeggiante muschio. E troneggiavano alti, impettiti, contro l’orizzontalità che invece era la dimensione preferita di Morandi. Vero è che Pulga dopo quella orgogliosa erezione di formati cilindrici verticali, aveva tentato di spostare la tela, rigandola come con le linee di un orizzonte. Poi anche lui aveva sentito quanto le mura petroniane stavano strette, e se ne era andato, non a Roma, come Bendini e Vacchi, bensì, facendo il grande salto, a Parigi, dove, approfittando di una borsa di studio nei primi anni ‘60, anch’io avevo soggiornato, e l’avevo visto in gloria, in uno dei primi ristorante della città, alla Coupole, seduto al desco assieme a uno stato maggiore che includeva un altro esule, Music, ma anche Lasaigne ed altri grandi nomi della cultura parigina. Poi lui stesso mi aveva chiamato a vedere i suoi svolgimenti parigini e a parlarne. Qui devo confessare un mio torto, credendo che avesse trovato una galleria francese di valore, non mi feci scrupolo, chiesi un compenso al mio scritto, cosa che non ho mai fatto, se il committente era direttamente un artista. Poi ho scoperto che non c’era nessuno alle sue spalle, che pagava lui direttamente di tasca propria, temo che la moglie non mi abbia mai perdonato quella mia supposta ingordigia, che non rientrava certo nelle mie abitudini. Comunque, ho scritto sulla sua fase parigina, in cui era come se avesse passato al torchio tutte le sue precedenti manifestazioni paesaggistiche, ottenendone una frantumazione, una fibrillazione, una sorta di tappeto sfavillante. Per sommi capi, è questo il percorso che si può intravedere nell’attuale mostra, in attesa che a lui, e al grande Momi, Bologna si decida a rendere un dovuto omaggio, ma dovremo aspettare un altro sindaco, un’altra stagione.