Ho ricevuto nei giorni scorsi il volumetto di liriche di Aldo Nove, “Poemetti della sera”, mentre in un incontro diretto a Ferrara, a proposito di un mio minuscolo saggio, “Una mappa per le arti in epoca digitale”, ho avuto con diretta consegna a mano una robusta antologia in cui l’amico Roberto Pazzi ha concentrato quasi per intero la sua produzione in poesia, “Un giorno senza sera”. Sono due autori molto diversi tra loro, ma trovo che li congiunge molto utilmente il fatto di essere entrambi cultori del genere breve appunto della poesia assieme all’altro “lungo” della narrativa. Le due componenti, lungi dall’ostacolarsi, agiscono in provvida concomitanza, o almeno così risulta a un lettore come me, che muove da una congenita diffidenza verso il genere poesia, di cui teme la caduta nel limbo o inferno del cosiddetto “poetichese”, così come pure per altre attività può esistere una analoga accusa di degenerazione. Molti dei miei colleghi che si occupano d’arte scrivono in “critichese”, e quanti frequentano le rive della filosofia scivolano nel “filosofese”, in cui, per non far nomi, eccelle Massimo Cacciari. Che cos’è il “poetichese”, che dà pure luogo alla “vergogna della poesia”? Il far ricorso a un lessico prezioso, cruschevole, ermetizzante. E il trovarsi pure, lo si voglia o no, coinvolti nelle questioni di una qualche metrica, anche se indubbiamente alleggerite dall’adozione, nella contemporaneità, del verso libero. Invece chi ha consuetudine anche con la prosa, se si cimenta pure nell’altro genere, lo fa avvalendosi di un linguaggio prosastico, comune, e anche di una sintassi molto fluida, dominata dalla paratassi, ovvero restano aperti i cancelli per una conversione da uno stato all’altro, senza nette cesure. Una situazione del genere si può allargare a tanti altri casi di simultanea frequentazione dei due lidi. Parlando proprio con Pazzi, ricordavo il caso notevolissimo di Moravia, autore di poesie fatte di tanti versetti sciolti, scarni, allungati come vermi. E ci starebbe pure il caso di Nanni Balestrini, pronto ad applicare a una pretestuosa “testa d turco”, trovata in una anonima signorina Richmond, una serie smisurata di apposizioni, a ruota libera, tirate fuori a colpi di dadi. E’ un criterio di libera casualità che poi Balestrini ha saputo applicare anche “in grande”, in componimenti narrativi pronti a diramarsi in infinite varianti. Questo esempio vale subito nel caso di Nove, anche lui portato a lunghe verificazioni, come fossero litanie, dedicate alla propria madre, o alla madre di tutti, alla Madonna. Infatti, mentre il metodo di Balestrini è inesorabile e pesca solo nel casuale, Nove invece incrocia il sacro col profano, componendo lunghe preghiere laiche, e magari invitando il pubblico presente a salmodiare assieme a lui i versetti di quelle litanie apotropaiche, forse suscettibili di procurare giorni di indulgenza, comunque non prive di potere consolatorio.
Si sa che Nove tiene un piede nella narrazione, ma con esiti alquanto rari. In Pazzi invece il narratore, rispetto al poeta, è ben più nutrito, egli vanta, se ben ricordo, non meno di una ventina di romanzi, che credo di aver recensito per lo meno in buona parte. E dunque, nel suo caso, anche quando assume la veste del lirico, si aggiunge pure immancabilmente il profilarsi di una “storia”, di uno spunto che basterebbe poco per allargare. Lo dice del resto lui stesso, ottimo commentatore di sé, che dai versetti snocciolati quasi d’impulso vede delinearsi i personaggi dei suoi romanzi, Cesare, Cleopatra, Napoleone, gli zar russi. Ovvero, c’è un percorso continuo che dall’esercizio breve porta verso il lungo. Prendiamo del resto il titolo stesso di questa antologia, “Un giorno senza sera”. Non potrebbe essere lo spunto per il dramma di un’umanità non più beneficata dal provvido arrivo delle tenebre serali, costretta a vivere sotto un’illuminazione inesorabile, come si fa per strappare la confessioni a qualche carcerato? Trovo esemplare in particolar modo il poemetto, “La mosca di Gravina”, riportato nel quarto di copertina della presente antologia. Vi scorgo adombrato un soggetto giù trattato da un regista dello horror di cui al momento non ricordo il nome, che mette in scena uno scienziato in anticipo sui nostri giorni, tentato addirittura dal progetto di trasportare lontano da sé il proprio corpo, pronto per tale scopo a chiudersi in una cabina ermetica. Ma non si accorge, il disgraziato, che assieme a lui è pure entrata una mosca, e così non può evitare che il suo corpo, trasmesso a distanza, salti fuori con la testa del vile insetto. Ebbene, uno spunto del genere mi pare pure insito nella lirica del nostro Pazzi, che per raggiungere una lontana donna amata pretende di mutarsi volontariamente in una mosca, e chiede alla donna di ospitarlo dentro di sé. Forse sfugge al nostro poeta che in tal modo rasenta una lirica eccezionale del Metafisico inglese per eccellenza John Donne, autore di un elogio dedicato a una zanzara che prima succhia il sangue di lui, poi quello della donna amata, e dunque in quell’essere vile avviene il coito, la congiunzione dei due sangui. Termino con un piccolo omaggio a me stesso, tornando a menzionare il libriccino di cui ho parlato in apertura, e che mi ha consentito di ricevere il dono poetico di Pazzi. In esso dichiaro che al giorno d’oggi tutte le creazioni, visive o letterarie che siano, confluiscono nel mezzo digitale, resta però un’unica differenza, appunto tra il fare breve e invece l’allungare il prodotto. I migliori operatori letterari, come Pazzi e Nove, sanno passare agilmente dall’una all’altra dimensione.
Aldo Nove, Poemetti della sera. Einaudi, pp. 88, euro 10,50: Roberto Pazzi, Un giorno senza sera, La nave di Teseo, pp. 293, euro 18.