Arte

Mostre a Milano: Dias, Benedict, Gobbetto

Uno degli aspetti più ammirevoli, nella lunga attività di gallerista in Milano svolta da Giorgio Marconi, dapprima, per parecchi decenni, alla direzione di uno Studio, e ora di una Fondazione, è la “lunga fedeltà” sempre dimostrata verso gli artisti scelti al momento giusto, e in seguito riproposti a intervalli regolari. In questo momento il suo ampio spazio di Via Tadino si caratterizza proprio per due omaggi del genere. Il primo e il secondo piano sono dedicati a una carrellata sulle “Azioni in tempo reale” compiute da Franco Vaccari, artista a me carissimo, cui quindi riservo una testimonianza in pubblico, nella mia rubrica domenicale sull’”Unità”. Ma nelle sale del pianterreno c’è pure una ripresa di opere di Antonio Dias, già apparse al momento del loro concepimento, quando l’artista, brasiliano d’origine, ma con un incessante andirivieni tra la patria e l’Europa, e in particolare proprio Milano, costeggiava le varie imprese tipiche del clima del ’68, cui partecipava poco più che ventenne (nato nel 1944), proponendo un mix tra alcune tendenze di quell’epoca estremamente audace. Per un verso gli si poteva attribuire una specie di “Land Art” da camera, o ripresa in piccolo, a livello grafico: distese di deserto, o di firmamento stellare, come sciami di pulviscolo, di puntinismo incalzante. Ma si sa che quel tipo di ricerca viveva della dialettica tra sterminate e incolte superfici di terreno e gli interventi della mano dell’uomo, con tracce parche e ridotte. Dias inseriva, a contrasto con l’informalità dello sfondo, un “lettering”, cioè la comparsa di parole vergate a caratteri di stampa, così ricordando che l’altra faccia del momento, il “concettuale”, aveva rilanciato proprio il ricorso al materiale verbale. Oppure prelevava dal sottostante mare indistinto dei tasselli, dei riquadri, con l’evidente intento di introdurre delle cesure, delle zone di silenzio, per consentire al rumore di fondo di non disperdersi per eccessiva insistenza, così come le onde del mare si rafforzano se riescono a sbattere contro le rocce della riva. E nello stesso tempo, proprio grazie a quella dialettica tra un informe di base e invece inserti di manifesta artificialità, Dias evitava la “morta gora” del monocromo, che mi sembra insidiosa quanto le sabbie mobili, pronte a ingoiare e a spegnere qualsivoglia spettacolo.
Marconi, all’atto di crescere su se stesso, era stato preso dall’orgoglio paterno di intestare la appena concepita Fondazione nel nome del figlio Gio, ma si è subito avveduto che a quel modo lo gravava di troppa responsabilità, meglio distinguere i ruoli, ridare all’erede un compito a lui più adatto, di fare il “talent scout”. Così è stato, Gio ora dispone di uno spazio tutto suo, a poca distanza da quello paterno, in cui mettere alla prova dei talenti emergenti. In questo momento vi compare uno statunitense, Will Benedict, che vale la pena di menzionare perché può essere associato, per vie ritengo non pretestuose, alla presenza di Dias nella Fondazione Marconi. Infatti anche Benedict ricorre ad ampie distese, a vaste strisce, però non si affida all’austero bianco e nero dell’artista brasiliano (mi è rimasto non detto questo dato con cui Dias allora confermava la sua partecipazione alla sindrome sessantottesca, che era del tutto avversa al colore, come espressione troppo compiacente verso la sensualità). Ora invece il colore è un obbligo, una necessità primaria, ma anche Benedict, d’altra parte, si guarda bene dal cedere alla soluzione noiosa del monocromo, e dunque spezza anche lui la solitudine delle sue stesure, pur piacevolmente cromatiche, con degli inserti, che però non sono il “lettering” già tanto caro al concettuale, bensì delle immagini sottratte al mondo dei media, al “popular” dominante nei nostri giorni. In questo c’è senza dubbio un ricordo delle soluzioni di uno statunitense tra i più noti e validi, proprio nel reagire all’austerità sessantottesca, David Salle, ma con rinuncia a un mosaico troppo gremito di ritagli e furti dall’attualità, riportato invece a un più schematico e ridotto bilinguismo, e sta in ciò quella certa vicinanza che si può trovare tra l’ormai anziano brasiliano e la nuova e brillante recluta.
L’estremamente animato panorama di luoghi espositivi milanesi non consiste soltanto in alcune maxi-sedi, come sarebbe la flotta Marconi, così saggiamente divisa tra casa madre e arrembante filiale, ma è costellato di tanti altri spazi, che addirittura riesce difficile, per un non residente, andare a stanare nell’intrico delle strade. Però sono riuscito a raggiungere la stanza minima di Davide Gallo, perché mi interessava vedere che cosa sta combinando Nicola Gobbetto, su cui avevo puntato al momento di realizzare una Officina Italia 2, nel 2011. La sua presenza, come risulta dal catalogo Mazzotta, risultava già suddivisa tra una conduzione unitaria, con una sagoma ispirata a forme ritrovate nel mito, e invece una esile, fragile installazione di elementi più minuti e rarefatti. L’attuale presenza, temo già chiusa al pubblico, ricca di tante declinazioni, forse perfino troppe, può però essere ricondotta a una immagine dominante e massiccia di un Ercole, ma subito aggredito da una pioggia di tracce, come segni di una scarlattina che lo abbia colpito, o di picconate inferte proprio per intaccarne la massa. Ma l’icona non concentra in sé l’intero discorso di Gobbetto, che in parallelo si dà a montare nello spazio tanti corpi inerti, strane macchine, tubature, impianti idraulici o altro, che intendono essere una materializzazione delle “fatiche d’Ercole”. A questo modo l’immagine unitaria dell’eroe cede il passo a una vetrina dei suoi strumenti, delle armi con cui ha condotto le varie imprese. Al momento il repertorio si ferma a due materializzazioni delle “fatiche”, ma ho incitato l’artista a continuare, a mettere in campo tanti altri ingegnosi montaggi, gruppi, coacervi, tante “macchine celibi”, allettanti, anche se, o forse proprio perché la chiave di comprensione risulta celata.

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