Circa vent’anni fa opponevo un risoluto “pollice verso” sulla rivista ”L’immaginazione” a un romanzo di Giorgio Montefoschi, uscito allora, “Il volo”, lo potrei ripetere quasi con le stesse parole a proposito del suo recente “Il corpo”, se non fosse che in genere non replico mai le mie sentenze di morte nella medesima sede, un ritorno di condanna sta bene in una sede minore, forse sfuggente, come questa del mio blog solitario. Naturalmente, se il giudizio di qualità è lo stesso, mutano di volta in volta i motivi di trama adottati dallo scrittore. Montefoschi, si potrebbe dire, è un frequentatore di quelli che in ambito architettonico Marc Augé ci ha abituato a chiamare i “non-lieux”, luoghi anonimi, banali, fatti in serie, come aeroporti, supermarket eccetera. Nei quali a dire il vero ci potrebbe anche essere del buono, del resto è pur necessario abituarsi a ciò che ci si presenta come inevitabile, chiamandoci a “far buon viso a cattivo gioco”. C’è in effetti un fascino insito nel banale, non per nulla proprio nel tentativo di giustificare il viaggio del nostro autore in luoghi frusti e anonimi si sono invocati nomi grossi, da Joyce a Robbe-Grillet. Solo che in lui la piattezza risulta definitiva, inappellabile, senza riscatto. Si sa invece quale partito utile ne sapeva trarre proprio Robbe-Grillet, cui venne commissionato a un certo punto di scrivere un romanzo tale da presentare con volto piacevole gli aspetti didattici della grammatica francese, coniugazioni, tempi dei verbi e così via, ne venne un gioiello. “Djinn”. Allo stesso modo nel caso del romanzo del Nostro si potrebbe dire che gli è stato commissionato o dal sindaco di Roma per illustrare la toponomastica della Capitale, come ci si muove da una via o piazza all’altra, oppure dall’associazione ristoratori per presentarci una sfilata di trattorie con relativi menu, e devo dire che in definitiva questo è l’aspetto più gradevole ed accettabile del racconto, per chi come me si picca di avere anche una piccola componente di gourmet. A consentire queste diligenti perlustrazioni c’è ovviamente la trama del romanzo, tipica dei nostri giorni, di matrimoni, ménage, consuetudini coniugali, accoppiamenti sessuali che si sciolgono. Qui sono di scena due fratelli, Giovanni e Andrea, con relative mogli, Serena e Ilaria, e figli, nipoti e così via, infatti è opportuno che il panorama sia gremito per poter abbozzare una specie di calcolo combinatorio tra i vari possibili accoppiamenti. In questo caso Giovanni, che dei due fratelli è il più vispo, bravo negli affari, dispotico nei confronti della moglie Serena, e anche con buone attitudini sessuali, a rompere le consegne, a invaghirsi della cognata Ilaria, fino a intessere con lei una vicenda di incontri, abboccamenti, accoppiamenti consumati in assenza dei rispettivi legittimi consorti. Il corpo del titolo c’entra molto poco, se non nella misura che quello dei vari attori viene trasportato da un quartiere della Capitale all’altro, come si diceva, e più che sui vari rapporti sessuali veniamo edotti sugli spuntini, pasti rapidi o raffinati, in casa o fuori che i diversi attori consumano, nelle varie combinazioni previste. Tanta piattezza e superficialità si guarda bene dall’incorrere in esiti catastrofici, da tragedia, in definitiva i fratelli riescono a non rompere del tutto tra loro, anche perché Ilaria, che potrebbe essere il pomo della discordia nella famiglia, a un tratto si dichiara sazia della relazione col cognato, non gli apre la porta, non si capisce bene perché. E anche la malattia da cui questi è colpito, che potrebbe essere una utile manifestazione delle componenti corporali, non incide più di tanto. Il troppo presuntuoso Giovanni viene colpito da una crisi, subisce un ricovero ospedaliero, da cui però si riscuote per andare subito a rituffarsi nel girotondo di incontri previsti dalla vicenda. La logica dei “non-lieux”, che è anche il trionfo dei non-eventi, riprende subito ad affermare il suo dominio.
Giorgio Montefoschi, Il corpo, Mondadori, pp. 220, euro 19.