La Galleria Tega di Milano dedica una mostra ad Aldo Mondino (1938-2005) in cui con molta precisione viene detto su quali tra i multiformi aspetti dell’artista, sempre generosamente sperimentale, in questa occasione si intende insistere: “Tappeti e quadrettature”. Naturalmente una rassegna così parziale incita a rendere all’artista un omaggio a tutto campo, in una retrospettiva che ne raccolga tutte le fasi e invenzioni. Compito sacro che dovrebbe spettare in primis alla città in cui ha operato, Torino, al Castello di Rivoli o alla GAM. Vengono per prime le quadrettature degli anni ’60, che sono state il modo ingegnoso con cui Mondino ha partecipato al clima Pop, di cui la città sabauda è stata forse la sede numero due in Italia, a gara con Roma e la relativa Scuola di Piazza del Popolo. Il clima “popolare” volle dire anche un rifarsi ai primordi dell’atto del disegnare o dipingere, come di uno zelante scolaretto che va al supermercato e dallo scaffale dedicato agli articoli di cancelleria sottrae un quaderno, di quelli appunto quadrettati, e vi traccia le sagome di oggetti di pubblico culto e dominio, gondole veneziane, castelli incantati, barchette da diporto, il tutto con andamenti di smaccata, proclamata ingenuità, da far concorrenza alle sigle pubblicitarie di quegli stessi prodotti. Una campitura ffidata a tinte squillanti completa questa festa del ritorno a stereotipi, cari nonostante, o forse proprio in virtù del loro carattere “cheap”, facilmente spendibile. Si sa bene che la Pop, soprattutto nelle declinazioni torinesi, fu in buona misura attigua al formarsi dell’Arte povera, con cui il capoluogo piemontese balzò in primo piano, forse proprio per aver potuto contare su quella fase anticipatrice, anche se fu necessario stravolgerla, andarle contro. La quadrettatura elementare e scolastica sarebbe stata ben presto tra le armi preferite di Alighiero Boetti, a patto di liberare quegli spartiti dall’intento di servire come docili supporti per appiccicargli delle icone. La quadrettatura, da ripercorrere ed evidenziare con la matita o con la biro, veniva a corrispondere ai grani di un rosario da scandire come per una giaculatoria, per una preghiera, salvo poi a ricordarsi che non era del tutto sbagliato ripetere, ma moltiplicandolo, il gesto di Mondino, così da affidare a quelle utili spalliere svedesi, di nuovo, una serie di immagini, chiamate a proliferare.
Mondino non era il solo, a Torino, ad assimilare, secondo modalità molto originali, i riti della cultura Pop. Gli erano accanto Piero Gilardi e Ugo Nespolo, i più irretiti dal fascino dell’iconosfera, e dunque non pronti a fare il salto in quella specie di iconoclastia o proibizione delle immagini con cui andava svolgendosi il clima attorno al ’68. Il più pronto a penetrare nel nuovo universo, ad andare “oltre lo specchio”, fu un altro membro di quel quartetto favoloso, Michelangelo Pistoletto, che seppe infilarsi di prepotenza nelle procedure eteroclite del poverismo, divenendone superbo e multiforme cultore, che non cessa di stupirci ancor oggi. Mondino perse forse il primo colpo, ma si riprese prontamente, mantenendo anche una qualche fedeltà alla sua partenza nel segno della “naïveté”, e per esempio giocando argutamente di omofonie, così portando le parole a evocare, a far nascere in scena quasi per colpo di bacchetta magica, gli oggetti vagamente associabili. E quindi dalle banali stecche di torrone riuscì a ricavare delle torri, anzi, dei torrioni, delle riproduzioni di tanti elementari Colossei, attraverso l’accumulo di quei mattoni di nuovo conio, che si portavano dietro lo scintillio delle confezioni. Il carattere morbido di certe caramelle, di quelle che si incollano al nostro palato tappandolo con un grumo, gli suggerì di erigere in loro ricordo dei blocchi plastici di ritrovato disordine informale. Il paziente cumulo di chicchi di caffé tostati, pronti a essere macinati e messi a bollire in una Moka, per facile e pronta traslazione gli fece venire in mente un tappeto steso alla Mecca su cui potessero inginocchiarsi folle di fedeli adoranti.
Vediamo insomma che l’universo di Mondino è dominato da una logica di passaggi estrosi, come dire che “una ciliegia tira l’altra”. Quel tappeto di chicchi di caffé gli ha fatto venire in mente che poteva sviluppare lo spunto e divenire produttore appunto di tappeti, l’altro dei filoni presenti in questa mostra, e ancora una volta si dà la concomitanza con la carriera di Boetti, solo che quest’ultimo, ligio al precetto sessantottesco di non usare più le proprie mani, affidava ad abili maestranze asiatiche il compito di ordire le stoffe, pur presiedendo al loro concepimento. L’arte di Mondino si può considerare anche quale un crocevia da cui si diramano tanti suggerimenti, infatti su questa scia del tappezziere solerte e instancabile si è messo anche un giovane brillante quale Rudiger, che ne ha rivestito per intero le sale del Palazzo Grassi a Venezia. Ma se altri si ferma a qualche tappa di questi “destini incrociati”, non è certo il caso del Nostro, che proprio come Calvino è sempre pronto a lasciarsi alle spalle qualche castello per raggiungerne un prossimo che già gli appare in lontananza. I tappeti stesi alla Mecca o in altro luogo mussulmano, fossero simulati con pedissequo atto pittorico o invece composti di grani di caffé, evocavano quasi da sé i fedeli utenti finali di quei parati, e dunque ecco che Mondino fa un salto indietro, si dà a un figurativismo arreso, senza pretese di trasformazioni, ovvero fa comparire una folla di figurette di arabi, nei loro costumi tipici. Uno di questi fa già capolino, nella metà lasciata libera dal dominante dispiegarsi di lussuosi tappeti, buoni ad ogni uso, anche da tramezzi, da pareti, da scenari, anche se nell’occasione scopriamo che l’apparizione è non di un arabo ma di un indiano con turbante. Poi il sipario si può alzare, ma questa è un’altra storia, da far trattare dalla mostra totale di cui si sente il bisogno, e le figure ricavate dal mondo arabo o comunque mediorientale assumono i panni di dervisci, pronti a mulinare nello spazio, a tracciare corolle, ad affrontare in modo pieno la terza dimensione, e perfino a suggerire effetti cinetici. In fondo, una delle capacità costanti del nostro Mondino è stata quella di muoversi sempre tra il reale e il virtuale, rientrando a volte nell’universo piatto della pittura, ma per ricavarne slancio e andare a frequentare lo spazio in misura piena.
Aldo Mondino, Tappeti e quadrettature, a cura di Eleonora Tega, testo di Luca Beatrice. Milano, Galleria Tega.