Arte

Milano riapre il dossier Medardo Rosso

Non è da perdere la rassegna che la Galleria d’Arte Moderna di Milano (attenzione, nella sede di Via Palestro, e non al Museo del Novecento) dedica a Medardo Rosso, sotto la guida della responsabile di quel settore, Paola Zatti.

È una preziosa occasione per fare il punto su quanto, attraverso i decenni, e non senza fatica, e colpevoli ritardi, le colleziono comunali milanesi hanno fatto per rendere onore a quel loro cittadino acquisito. Ora siamo invitati ad ammirare un numero consistente di suoi capolavori, con la circostanza positiva che, soggetto per soggetto, ci vengono fornite sia le versioni in bronzo sia quelle anteriori in gesso patinato o in cera. La GAM insomma, espone in ordine i suoi tesori, accostandoli a prestiti opportuni, e si aggiunge pure l’abbondante produzione di foto con cui Rosso commentava per primo, e ne vedremo l’importanza, la portata della sua stessa operazione.
Dato il carattere di puntuale informazione che questa mostra si propone, la curatrice non affronta i connessi problemi di ordine critico-storiografico, forse dando per scontato che oggi nessuno può disconoscere il grande valore di quella esperienza. Il che è senza dubbio vero, resta però da collocare nel modo più giusto quella presenza in un vasta trama storiografica, col coraggio, anche, di giungere a qualche precisazione che potrebbe apparire clamorosa. Infatti, cominciamo col dire che l’attività di Rosso fu tardiva, la sua data di nascita, 1858, lo avrebbe dovuto incitare a seguire le esperienze della situazione allora emergente, ovvero la causa del Simbolismo, entrando in gara per questo verso col quasi coetaneo Leonardo Bistolfi (1859). Invece come si sa Rosso volle essere impressionista, ma andando a coltivare quell’opzione con deciso ritardo. Nulla da fare, gli Impressionisti in regola con le leggi del tempo nascono attorno al 1840, come fa fede uno dei più patentati tra loro, Claude Monet, nato nel 1840 tondo tondo. Forse Rosso poteva allegare a propria giustificazione il fatto che trasferire l’Impressionismo nelle forme non congeniali della scultura implicava un inevitabile ritardo, cui infatti sottostò pure l’altro scultore impressionista fiorito tra di noi, anche se di nascita russa, Troubetskoy, Però, come già detto, il loro coetaneo e concorrente, Bistolfi, capì che bisognava saltar fuori dalle paludi di quell’”ismo” ormai sulla via del tramonto, con la sua pretesa di ingolfare le forme, di affondarle in un ammasso unico, in preda allo sfumato e al non-finito. Era tempo invece di puntare su linee di forza, su schemi scattanti e prolungati, e soprattutto di ridare alla scultura il suo massimo pregio, quello della tridimensionalità, della possibilità di girare attorno ai blocchi, e non di porsi frontalmente di fronte ad essi. Detto in termini fotografici, la scultura dal Simbolismo in poi, e lungo tutto il corso delle avanguardie successive, va fotografata secondo una molteplicità di punti di vista, laddove il Rosso fotografo, qui ampiamente documentato, si accanisce su un solo punto di vista.
Ma allora, come si spiega che questo artista viene universalmente acclamato come lo scultore dei tempi nuovi, mentre il povero Bistolfi sembra lasciato solo agli specialisti del liberty, cioè a una storiografia minore? La colpa di ciò risale a Umberto Boccioni, grande artista, e pure grande teorico, ma colpevole della lettura sbagliata di quel suo parziale predecessore, invece di puntare risolutamente proprio su Bistolfi, Perché avvenne una simile lettura fuorviante? Forse perché Boccioni temeva di ammettere, in se stesso prima ancora che negli altri, una partenza proprio dalle forme melodrammatiche, impregnate di ricordi dell’antico, del museo, che peraltro trovava, e faceva proprie, nella pittura di Gaetano Previati. Medardo Rosso invece forniva una lezione di come si affronta la realtà in presa diretta, dando una documentazione di volti umani colti nella banalità della vita quotidiana, in fondo la sua madre è della stessa tempra delle portinaie dell’altro. Ma Boccioni non fonde, non compatta, anzi, fruga nel soggetto per estrarne le linee di forza, e su questa strada lo aiuta proprio Previati, col suo divisionismo non “a coriandolo”, bensì a fibra lunga, come un giunco spiovente che si divincola nello spazio frustandolo. Boccioni, insomma, è esplosivo, pur partendo da un nucleo di vile prosa domestica, mentre Rosso implode, concentra, si rifugia nell’informe, nel non-finito, adotta cioè tutte le soluzioni che le avanguardie novecentesche stavano abbandonando.

Medardo Rosso. La luce e la materia. Milano, GAM, a cura di P. Zatti, fino al 31 maggio. Cat. 24ore cultura.

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