Fin dal 1874 si è svolto un pluridecennale “Combattimento per un’immagine”, come ebbe a definirlo il critico Luigi Carluccio in una mostra torinese, nel senso che pittura e fotografia si sono misurate, tentando di carpire l’una i privilegi dell’altra. Dapprima, e a lungo, fu la fotografia che cercò di emulare gli effetti della rivale, dimostrando che non era certo inferiore nell’acquisire caratteri “pittorici”, atmosferici e altro. Tanto che, all’inizio del secolo scorso, fu la pittura ad abbandonare la pista dell’imitazione del reale dandosi alle varie astrazioni e concrezioni. Infine addirittura, al momento della la crisi del ’68, decise di abbandonare il suo strumento principale, il pennello, a tutto vantaggio della macchina fotografica, col seguito naturale del film e del video. Ma sacrificando, in quella mutazione, certe sue doti congeniali, abbracciando anzi taluni caratteri dell’avversario, come lo “sharp focus”, e soprattutto una illuminazione neutra e diffusa, valida soprattutto per esprimere “concetti”. Alla foto, in compenso, toccava rispondere con procedimenti opposti di fuga dalle proprie ragioni costitutive, sentendosi vittima di una specie di “vergogna” dell’impressione chimica su lastra o pellicola, e il passaggio al digitale non ha mutato in sostanza la situazione. Se ora veniamo a Nino Migliori, principe di chi in tutto il secolo scorso ha maneggiato procedimenti da dirsi all’incirca fotografici, dopo una prima fase di aderenza al mezzo, lungo il solco del neorealismo, che proprio nella foto e nel cinema ha avuto i suoi punti più alti, ben presto ha capito che bisognava gettare alle ortiche il supporto tradizionale, e da allora si è messo a stampare su materiali mobili, cangianti, precari. Fino alla serie attuale, in cui, in partenza, svolgerebbe un banale compito di illustratore di sculture celebri, dalla senese “Ilaria del Carretto” di Jacopo della Quercia al “Compianto” di Niccolò dell’Arca, conservato nella chiesa bolognese di S. Maria della Vita. Ma in questi approcci Migliori si guarda bene dal ripescare certe prerogative del mestiere, come sarebbe il cogliere il monumento in toto, e con una illuminazione chiara, e in campo lungo. Al contrario, l’artista adotta in genere primi piani ravvicinati, quasi stabilendo con l’opera un rapporto di colluttazione, quasi immedesimandosi nelle mani dello scultore. E soprattutto, abbandonando un procedimento di illuminazione olimpico e neutrale, scegliendone al contrario uno violento, irregolare, baluginante. La mostra in cui ora Migliori documenta questo suo corpo a corpo con il “Compiano” si intitola “Lumen”, ma viene in mente il noto detto “lucus a non lucendo”, cioè di incontro-scontro tra opposti, in quanto si tratta di una luce avara, precaria, emergente da un indietreggiamento nei secoli, fino a ripristinare il lume di candela. In effetti, abbandoniamo il tramite di specie ottica, condotto a distanza, per valerci di un rapporto quasi di specie tattile. Le foto ricavate in modi così eccezionali documentano l’impresa di un artista che si colloca nella stessa posizione che dovette assumere il primo esecutore, mettendo le mani in pasta, con affondi, immersioni, scavi. A questo modo si perde il “totale”, viene meno l’immagine globale dei personaggi modellati, per lasciare il posto a tanti affondi locali. In un certo senso, è il trionfo della poetica dell’Informale, o di un materismo vivace, incalzante, articolato in decine di spettacoli, come se appunto l’occhio fotografico fosse stato presente al momento in cui l’artista operava, ma quasi legato proprio alle sue mani, o allacciato alla fronte, in modo da ricavare uno spettacolo aderente, destinato poi a spegnersi, a rientrare nei panni di una visione “normale”, quella che si offre a noi, “ipocriti visitatori”, avrebbe commentato Baudelaire. Da notare che un procedimento del genere Migliori lo applica anche agli esseri viventi, infatti ha avviato una serie di ritratti affidati a un’illuminazione ancor più precaria, al “lumen” di un fiammifero che solo per pochi attimi sottrae le nostre sembianze da un buio primigenio, ma poi gliele restituisce, come corpi che affondano nelle tenebre di un oceano.
Nino Migliori, “Lumen”, a cura di Graziano Campanini e Eugenio Riccomini, Bologna, Complesso monumentale di S. Maria della Vita, fino al 23 aprile. Cat. Editrice Quinlan.