Seguo da tempo l’attività multiforme di Michele Mari, che ha conosciuto un picco di grande valore quando, nel 2017, ci ha dato Leggenda privata, un esempio estremo di autofiction, rivolto a narrarci dei difficili rapporti avuti col padre, il grande designer Enzo Mari, e non alleviati da quelli con una madre ugualmente rigida e non particolarmente amorevole verso il figlio. Fuori dalle pagine certamente sentite e ispirate di questa autofiction, sembra quasi che Mari disperi delle sue doti intrinseche e dunque cerchi di potenziarle, o addirittura surrogarle, andando a rubare un romanzesco allo stato puro quale gli può giungere dalle più autorizzate, in questo senso, letterature straniere, a cominciare da quella anglosassone. Penso a un’opera indicativa in questo senso quale Roderick Duddle (Einaudi, 2014). che però smarrisce per strada le ragioni di una possibile autenticità e giustificazione. Il che accadrebbe anche per un’opera appena uscita. Le maestose rovine di Sferopoli, in cui di nuovo Mari sembra smarrirsi nei meandri di uno scenario di fantasia, quale del resto è ricordato fin dalla copertina del libro, con quella visione di rovine archeologiche, residuo di qualche catastrofe cosmica. Ma poi, sul finire, il nostro autore si riscatta perché si mette a raccogliere uno sciocchezzaio di battute, quasi barzellette, giochi di parole, sconfessando l’impegno industrioso di viaggiatore tra rovine austere e grandiose. Ma a questo modo il nostro Mari si ricollega a una bella tradizione nostrana, dei Campanile e degli Zavattini, capaci di esprimersi con rapide battute. Uso ricordare in merito quello che mi sembra un capolavoro di Zavattini, in uno dei suoi libri comici degli anni Trenta, “sento che tra poco mi scapperà di dire Vercingetorige”. Ebbene questo scrittore che infila “perle cinesi”, battute di straforo, doppi sensi riscatta il precedente autore superciglioso, troppo innamorato di ruderi poderosi ma ingiustificati.
Michele Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi, pp. 165, euro 18.