Mi intriga molto una mostra che si tiene attualmente a Firenze, Palazzo Pitti, sotto la multiforme guida del Direttore Schmidt, con un titolo modesto ma molto significativo, “ I nipoti del re di Spagna”, consistente in una serie di dipinti dedicati a questo tema, realizzati da Anton Raphael Mengs. Ma non è il noto teorico di un classicismo di ritorno a venirvi celebrato, in quanto il tema stesso porta a una serie di ritratti dedicati a bambini e bambine, pargoli delle grandi famiglie regnanti, tra Borboni di Spagna, di Napoli e di un ramo toscano. Si potrà dire che è il tema a dettare legge, a imporre quindi un universo di piccole creature, quasi per natura bamboleggianti. E contribuisce a questo festival del fare piccolo un enorme dato demografico dell’epoca, che cioè le donne erano costrette a partorire a catena, in una crudele lotta contro la mortalità infantile, un dramma che non guardava in faccia alle classi sociali. La Diva severa, per dirla con Carducci, bussava a soglie alte e basse con la stessa micidiale frequenza, e dunque anche le principesse più altolocate, poste in vicinanza dei troni, erano costrette a mettere al mondo figli quasi con ritmo industriale. Del resto fu quella una perversa regola che si prolungò nel tempo, ne seppe qualcosa anche il nostro Don Lisander, cui il ginecologo di famiglia aveva consigliato di darci un taglio, di non mettere più incinta annualmente la consorte, ma invece il Manzoni continuò imperterrito, spinto da una inarrestabile libidine sessuale o dall’obbedienza al dogma cristiano, fino a procurare la morte della moglie. Si potrà dunque osservare che quell’abbondanza di principini, coi loto volti ovali, le carni diafane, le vesti larghe, assorbenti, era solo il riflesso di un crudele costume dell’epoca, ma se ne può trarre anche una regola stilistica generale, fu un intero secolo pittorico a voler andare “in piccolo”, a voler praticare formati ridotti, quasi aderendo al precetto dei Viaggi di Gulliver fino a dar vita a un universo lillipuziano, Forse fu un modo comune di reagire alla magniloquenza della precedente età barocca e barocchetta, che del resto, coi Giaquinto e Gianmbattista Tiepolo, si era spinta fino alle soglie del regno di Spagna. Contro quella grandeur, dovuta al secolo precedente, bisognava reagire, invertire la marcia, rimpicciolire, era una delle condizioni poste dall’età dei Lumi, assai più che il raddrizzare le forme, come avrebbe voluto il Neoclassicismo venturo, di cui a torto proprio il Mengs viene riconosciuto come un campione legittimo. Si può parlare di una scelta stilistica generale perché questa medesima ansia di ridurre, di rimpicciolire la ritroviamo in tanti altri protagonisti dell’epoca, dalle nostre parti basti pensare a Pietro Longhi, che beninteso ci porta dritto dritto a un numero uno internazionale di questa tendenza, a William Hogarth, cui è inevitabile contrapporre subito un analogo spirito di piccoli eroi da bomboniera coltivato in Francia da Watteau, e subito supportato pure da Boucher, da Fragonard. E dove vogliamo mettere i bambocci avventurosi, intenti a emettere bolle di sapone o ad avvicinarsi trepidi a qualche industrioso balocco da tavolo, così bene illustrati da Chardin? E l’elenco potrebbe continuare, magari aggiungendo anche il vedutismo microscopico di Panini, o le vedute affollate da un popolo di turisti come alacri formichine espresso dal Canaletto. Del resto, quella medesima tematica dei piccolo rampolli di grandi famiglie si era imposta su altri colleghi di Mengs, come per esempio Johan Zoffany, toccando un vertice con un artista meno considerato di questi due, Martin Van Heytens, cui si deve un incredibile ritratto dell’imperatore d’Austria Francesco I con l’ape regina Maria Teresa, capace di mettere al mondo una nidiata di figli che la circondano, si infittiscono attorno a lei, come una visione di glandole, di intestini, di quelle stesse viscere risultate così altamente riproduttive. In fondo, questo vivaio di nuove esistenze, dei Borboni e Compagnia, è inversamente simmetrico rispetto alla visione da incubo della Cripta dei Capuccini, a Vienna, che rappresenta il terminale di quel pollaio ruspante, quando creature grandi e minuscole sono giunte alla tomba e ora se ne stanno racchiuse in bare di tutti i formati. Naturalmente, che il fenomeno andasse oltre gli spunti realistici, forniti dalle effettive età infantili dei soggetti ritratti, ce lo dice il fatto che anche quando il volto, di Mengs e compagni, si innalza verso i sovrani adulti, ne escono comunque forme magre, smunte, effigiate in economia. Modalità di cui ci fu un grande erede, Goya, chiamato dallo stesso Mengs ad assumere la carica di primo pittore della corte spagnola, e ancora oggi ci chiediamo se nei suoi ritratti della corte madrilena, concepiti appunto in forme così riduttive, quasi caricaturali, ci fosse un nascosto intento di satira, di critica in atto nei confronti dei poteri assoluti dell’ancien régime, o fosse solo un accedere ai dettami di una moda, che proprio nell’autorità del Mengs aveva trovato il suo principale cultore. L’intero primo tempo del grande Goya, come si sa, è intonato a quel rivolgersi a un mondo minore di ragazzi e ragazze di vita, dalle dubbie virtù, dai costumi tutt’altro che irreprensibili, o perduti, come i pargoli di Mengs, in una specie di eterno e sospeso kinderheim, forse meglio parlare di una “giovanottiera”. Ma per fortuna in Goya covava l’antidoto, la vendetta, quel fatuo mondo ridotto, fatto di spoglie aggraziate, avrebbe suscitato il sorgere di una corrente contraria, di un senso di morte, di negazione, di incubi notturni. Una componente che invece era del tutto estranea a questa popolazione serena, fino all’insulsaggine, di questi pupi preziosi dipinti da Mengs, già pronti per essere esposti in un museo delle cere.
I nipoti del Re di Spagna. Anton Raphael Mengs a Palazzo Pitti, a cura di Matteo Ceriana e Steffi Roetgen, fino al 7 gennaio. Cat. Sillabe.