In un saggio da non perdere avviene il felice incontro tra Fulvio Irace, il miglior interprete dell’architettura contemporanea sul supplemento domenicale del “Sole 24ore”, e il maestro assoluto del postmoderno, Alessandro Mendini, con cui questa etichetta ondivaga (anch’io mi ci sono messo di buon impegno a renderla tale) trova tutto il suo significato più appropriato, in coppia con un altro nostro maestro, più anziano di lui e che ci ha già lasciato, Ettore Sottsass Junior. Una mostra al londinese Victoria and Albert Museum, di qualche anno fa, ha attestato puntigliosamente, con la precisione che ci mettono gli anglosassoni, questa comune virtù del duo nostrano. Che dunque non hanno bisogno di venire inclusi nel glamour delle cosiddette archistar, dato che al contrario, se in particolare si parla di Mendini, vale in questo caso il classico “piccolo è bello”, anche se lui non disdegna affatto le creazioni a tutto campo, in una normale attività di progettista di case e musei. Ma certo egli non punta ai maxi-organismi, che per prima cosa esigono che si stacchi il cordone ombelicale da cui sono legati alla penna progettuale. In Mendini, anzi, e gli agili capitoletti in cui è articolato il saggio di Irace lo attestano, si parte da un “sottile filo continuo che non si stacca mai dal foglio”, e che, invece di puntare a far grande, cerca di tracciare reti, retini, di presentarsi addirittura come un ricamo, come un “merletto su carta”. E dunque, non gigantismo, non ricorso a materiali plastici di eccezione, capaci di sfidare i secoli o quanto meno gli agenti atmosferici, ma al contrario l’elogio della “fresca fragilità dei fiori”, ovvero le lodi di un connotato di “fragilismo”, che, lo si ammetterà. non entra certo nel repertorio delle archistar, si tratti pure dei da me molto amati Hadid e Calatrava. In realtà, l’esame della creatività mendiniana porta a un apparentamento con i viaggi di Gulliver, infatti quello che conta è una “perdita dell’unità di misura”, per cui dal modesto utensile casalingo nulla vieta di risalire appunto all’edificio di vaste proporzioni, ma pur di non far venire meno i vantaggi di un vincolo, di una stretta relazione tra le parti, come in un organismo vivente. Compito principale di Mendini è quello di mettere le “cose in relazione tra loro”, così da farle diventare come i personaggi di una commedia dell’arte. Ecco quindi che egli non disdegna di mettere il suo ingegno al servizio dell’Alessi per progettare cuccume, cavatappi, ogni altro umile strumento dei nostri interni domestici, che così viene sollevato al livello di un folletto amichevolmente ghignante e confortante, come in un cartoon adatto anche all’infanzia. E l’altra impresa ben nota è quella che lo ha visto pure mettere la sua progettualità a disposizione degli orologi swatch, accogliendone in pieno l’esigenza di essere policromi, sgargianti, provocanti. L’unità di confluenza e di raccolta di queste varie proposte sono le stanze, teatrini dove si interpreta una bonaria, piacevole commedia dell’arte con attori quasi presi dalla strada, compiaciuti della loro provenienza dal basso, in stretta vicinanza con la cultura Pop. Altra nota distintiva, rispetto alle creazioni monumentali delle archistar, è la presenza del colore, pettegolo, insinuante, pronto a esercitare un ruolo deflazionante, contro la prosopopea di certi mobili di vecchia stagionatura e nobiltà, come le poltrone, che pretendono di ammantarsi di aura, come sarebbe la poltrona su cui forse Proust schiacciava un pisolino. Ma eccola degradata, o invece promossa? da un’invasione di brufoli, come una scarlattina provvidenziale e redentrice. Infatti uno dei proclami che suonano più irriverenti, in questo codice originale, sta nell’affermare che “progettare è dipingere”. L’ultimo attributo ugualmente fertile sta nell’elogio del “together”, del mirare non a una prestazione singola, solitaria pur nella sua magnificenza, ma invece a una prassi collettiva, nel nome di una intera comunità.
Fulvio Irace, Codice Mendini. Le regole per progettare. Electa, pp. 365.