Riprendendo il compito che mi sono preso di valutare i romanzi comparsi nella cinquina dello Strega, riassumo l’esito delle puntate precedenti, che hanno escluso il vincitore, Albinati, in quanto da me giudicato per una”Immaginazione” di prossima uscita, con riconoscimento del suo grande impegno e straordinaria scorrevolezza, menomati però da alcuni difetti strutturali. Buona la valutazione della prova di Sermonti, però nei limiti di una certa voluta modestia di conduzione. Pollice verso per la Stancanelli (come dichiarato, non entro in merito del saggio di Affinati, appunto in quanto di natura prevalentemente saggistica). E ora, che dire di Giordano Meacci e del suo “Cinghiale che uccise Liberty Valance”? Certamente l’Autore si è molto impegnato, e ha anche cercato di uscir fuori da vie tradizionali, ma l’esito non risponde alle sue ambizioni, ovvero l’opera è caricata di troppe intenzioni non realizzate, o non funzionanti a dovere. Sicché, sotto sotto, si intravede una natura che ci riporta molto indietro, siamo quasi a un novelliere di matrice toscana, quasi a una riedizione dei racconti per cui, sul finire dell’Ottocento, andava famoso Renato Fucini. L’azione si svolge in un paese inventato, Corsignano, il cui suono però rimanda scopertamente a tante località della Maremma, con relativo folclore, tra cui la presenza di branchi di cinghiali, oggetto di fobia e attrazione venatoria da parte della popolazione locale. In questo scenario si muovono tanti personaggi. tra l’altro non ben collegati tra loro, sicché ne vengono vari nuclei condannati a svolgersi ciascuno per conto suo, seppure con frequenti riprese, in una storia che si sviluppa a puntate, come se il cuoco-autore procedesse mettendo giù dal fuoco le varie pentole, salvo poi a rimetterle a cuocere per un approfondimento. In genere si agitano rappresentanti di nuove generazioni, che dunque ostentano disinvoltura di mosse, perfetto adattamento a tutte le risorse dell’oggi, sia nella guida di mezzi sia nella navigazione in internet, e anche nella disinvolta condotta degli affari, ma si avverte una ineliminabile corrente che risucchia questi tentativi di attualità riportandoli all’indietro, a fare i conti con vecchie situazioni e avventure e crimini del passato, come quando i giovinastri in azione sul presente spingono una anziana compaesana, Atonia, a snocciolare i ricordi di un fallito tentativo di giungere a nozze con un maggiorente del paese. In fondo, il richiamo al passato è quanto dà sostanza e credibilità alla narrazione, purtroppo invece aduggiata dalle fughe in avanti, il cui segno più vistoso sta proprio nel continuo riferimento al famoso film di Ford del 1962, nei cui panni i nostri poveri combattenti di un presente fragile e miserabile vorrebbero identificarsi. Semmai, i momenti più intensi del racconto si hanno quando, tutto sommato, a questi velleitari evasori dai lacci del passato, e candidati a una disinvolta immersione nel presente, le cose vanno male, fino a spingere alcuni di loro a dei suicidi per impiccagione, descritti senza dubbio con vivacità di dettagli, fino a sfiorare qualche esito da “gioventù cannibale”. Fra l’altro, il lettore, in presenza di vicende così sbocconcellate e frammentarie, fatica a comprendere perché a un tratto davanti alla sua stupita attenzione si parino questi cadaveri, per esempio di una di due sorelle, che avevamo visto disinvolte, dedite a praticare il sesso senza scrupoli, ma poi una di loro appare alla sgomenta congiunta mentre se ne sta pendente da una corda, col macabro dettaglio di una lingua orridamente ingrossata. Episodio simile, quello di Davide, anche lui protagonista di un orrido suicidio, con l’obbligo per gli sgomenti compagni di caccia e di malaffare di sbarazzarsi del cadavere ingombrante. E’ come se l’Autore avesse cercato di erigere un traliccio di sovrastrutture volte a innalzare la materia, ma questo non regge, si squarcia, e dunque ricadiamo in una sotto-realtà misera e sordida. Nell’ordine dei tentativi di riscatto e di evasione, oltre ai vacui riferimenti al capolavoro di Ford, ci sta anche la comparsa dei cinghiali, che non figurano solo come ovvie prede di battute di caccia, tanto comuni nella tradizione toscana, ma vengono investiti di una funzione superiore. In fondo, sono i testimoni delle meschinità, nequizie, vani propositi abbozzati da questa umanità inferiore, invano protesa a conquistare traguardi più avanzati, ma sconcertata, sconvolta dalla presenza di questi temuti testimoni. Chissà, il nostro Meacci avrebbe dovuto avere le alte capacità di un Kipling, dare davvero cittadinanza alla comunità dei cinghiali, come in effetti cerca di fare attribuendogli una lingua propria, inventata di sana pianta. Ma niente da fare, questo universo resta comunque estraneo alle vicende che si consumano dall’altra parte, tra i due mondi non c’è un effettivo scambio di esperienze. Tutt’al più, i cinghiali consentono al narratore di non svolgere in prima persona una condanna retorica dei misfatti che sta compiendo, secondo un codice di novellistica d’antan, quel piccolo mondo antico o natio borgo selvaggio.
Giordano Meacci, “Il cinghiale che uccise Liberty Valance”, Minimum fax, pp. 452, euro 16.