Alessandra Tiddia, giovane e brillante studiosa, ha steso una monografia assai utile su Piero Marussig (1879-1937), noto soprattutto per essere stato uno dei Sette del Novecento fondato da Margherita Sarfatti, Ma bisogna subito dire che a quell’appuntamento, dei primi anni Venti, Marussig non era certo giunto fornendo una prestazione eccezionale, magari ribaltando una precedente percorrenza. Il tratto dominante della sua carriera è stato quello di una tranquilla, coerente, continua coerenza, dal principio alla fine, tanto che, a differenza di altri più prestigiosi compagni di quel gruppo, Sironi, Funi, Dudreville, egli non aveva mai voluto sperimentare le punte aggressive del Futurismo. Era partito nel segno di un postimpressionismo che però sapeva subito cancellare gli eccessi di vivacità delle sensazioni, e dei conseguenti tocchi pittorici, ispirandosi piuttosto a un fauvismo in salsa veneta, ponendosi cioè a fianco di un Gino Rossi, e soprattutto di un Umberto Moggioli. Vale a dire che un certo schiacciamento era entrato da subito nella sua maniera. Oggi si parla tanto di “flatness”, ebbene, questa virtù lo aveva sempre accompagnato, lo aveva indotto a schiacciare sulla tela le varie immagini, in una frequentazione assidua e assolutamente intercambiabile di figure, ritratti e autoritratti, paesaggi, nature morte, tutti redatti distendendo in lungo e in largo le vivide trame cromatiche, portandole a esprimersi a fior di pelle. Questo allargamento della pennellata aveva richiesto il concorso di un effetto congiunto, a livello cromatico, ovvero i colori avevano dovuto anch’essi, per così dire, dilatarsi, e dunque perdere in vivacità, in freschezza, ma per assumere un fare largo, come se divenissero delle mattonelle, magari affidate alla ceramica, e incastrate tra loro con un sapiente effetto domino. Ne veniva un abbassamento nella fragranza-flagranza delle singole annotazioni, ma per dare loro una più vasta tenuta e resistenza. Ma soprattutto, quello che colpisce in lui, sta proprio nella equità, per non dire indifferenza, nel trattamento, che non cambiava l’approccio sia davanti a temi di natura, sia a motivi legati alla sfera artificiale della moda. Ci si può chiedere quale fosse il marchio della sua appartenenza al Novecento, e alla volontà propria di quel movimento di essere attuale, al passo coi tempi moderni, ma assumendo toni privi di enfasi, decisamente prosastici. Accantonati gli sperimentalismi delle avanguardie, semmai i più noti compagni di via, si pensi al trio Sironi-Funi-Oppi, ci provavano con recuperi dall’antico e dal museo, una mossa cui Marussig, invece, fu sempre estraneo, ma anche lui poteva partecipare vigorosamente all’epica della “vita moderna”, attaccandosi per esempio ai motivi a righe degli abiti, quando si rivolgeva a esseri umani, che rispondevano a meraviglia al suo gusto di procedere con appiattimenti, nell’intento di scandire lo spazio, diciamo così, per il lungo, solcandolo con delle fibre pronte ad allargarsi o a restringersi, a percorrere comunque il dipinto a fior di pelle. Oltre alle righe o alle trame a scacchi degli abiti, il pittore si impadroniva di ogni altro motivo decorativo, di schienali di poltrone, di coperte e sovraccoperte, portando questi tessuti a imbrogliarsi, a confondersi con i temi di natura, con fronde di alberi, rami di fiori, in una sostanziale ambiguazione dei vari codici, i prodotti dell’ingegno, e della moda, resi equipollenti rispetto a quanto poteva fornire madre natura nel suo rigoglio. In alcuni casi le guaine protettive che fasciano le figure se ne impadroniscono, e servono per dar loro qualche torsione, qualche movimento, ma sempre tenuto basso, in modo da non prevaricare su un andamento che intende rimanere a fior di pelle. Anche la tavolozza contribuisce felicemente al raggiungimento di questi effetti. Già ho detto del colore che appare sempre come “ceramicato”, come filtrante attraverso un vetro che gli dà consistenza, densità, luminosità, mentre anche la gamma dei colori usati si fa volontariamente sommaria, onde evitare importuni effetti estemporanei. Per contribuire ad imporre un simile sentore di preziosa chincaglieria predominano le tinte più essenziali, affidate anche al gioco dei complementari, i rossi i gialli e blu sono elegantemente contrastati dai verdi e arancio e violetti, come se le immagini non intendessero mai emergere al primo colpo, ma solo dopo un passaggio in un forno che ne ferma gli umori dando loro proprio quella fissità e monumentalità cui, pur in modi diversi, aspiravano tutti i componenti della pattuglia Novecento.
Alessandra Tiddia, Piero Marussig, Fondazione Crtrieste, pp. 399.