La Triennale di Milano ha commesso, parecchi anni fa, un errore che poteva esserle fatale. Ritenendo che fosse ormai impossibile rispettare la propria ragione istituzionale, di presentare ogni triennio un quadro internazionale dell’architettura e del design, ha preferito procedere con mostre parziali di più ridotta portata. Ma a questo modo ha lasciato un buco enorme di cui si è impadronita la Biennale di Venezia, dimostrando che invece un compito del genere non era affatto superato. La Biennale di architettura è ora uno dei maggiori successi di cui si può vantare l’istituzione veneziana. Però la Triennale, approfittando del magnifico spazio apprestato a suo tempo dal Muzio, e procedendo a sue varie ristrutturazioni, presenta di volta in volta una serie di mostre di vario genere e formato che rendono necessaria e piacevole una visita con frequenza periodica. Per esempio, in questo momento, al primo piano, si può vedere una mostra di progetti per New York immaginati da Francesco Somaini, e di sicuro, o sull’”Unità”, se sopravviverà all’attuale crisi, o su questo blog, in caso contrario, me ne occuperò come la mostra merita. Al pianterreno si ripropone Gillo Dorles, con la sua miracolosa sfida al peso degli anni, e con una serie di disegni emozionanti, soprattutto se si pensa alle condizioni attuali del grande vegliardo che li ha realizzati. Ma la “pièce de resistenzce” è la dilagante mostra dello stilista sardo Antonio Marras, che quasi ponendosi al seguito di Dorfles la intitola “Nulla dies sine linea”. Naturalmente, non si può non partire proprio dal famoso stilista della moda, che ha saputo trarre abile partito dalla sua Sardegna, ibridata con la cultura catalana, e con la “barbarie”, la “barbagia” che le sta alle spalle. Ma in definitiva quando lavora per la moda, Marras deve venire a patti, deve temperare e rendere accettabile appunto la barbarie, la cupa mitologia che ha alle spalle, qui invece si sente libero, può procedere “con la mano sinistra”, rispettare, se si vuole, le procedure e i riti della moda, ma abbassandoli, ovvero facendone un uso “perverso”, contrario alla inevitabile correttezza cui è costretto quando agisce professionalmente. E dunque, eccolo alla prova del disegno, punto di partenza di ogni creatore nel mondo della moda, ma in questo caso le sagome, i profili possono divenire aspri, scorretti, mostruosamente deliranti, come di un adepto dell’Art brut già coltivata da Dubuffet, o da qualunque altro praticante di forme espressioniste, soprattutto se condotte in stati di ingenuità, da naïf, istintivo o procurato, disceso cioè agli inferi per volontà programmatica, come è il caso di Marras. Peccato però che queste “linee” tracciate con esercizio quotidiano finiscono per rassomigliarsi pericolosamente tra loro, rendendo alquanto inutile il loro moltiplicarsi, come di chi ogni notte ripiomba nel medesimo incubo, rivede gli stessi fantasmi, ricade in preda alle medesime ossessioni. Un altro momento tipico del mestiere della moda è di accumulare gli abiti in fitti attaccapanni, è una modalità seguita anche nella mostra, ma con il solito rovesciamento perverso o perfino diabolico. Gli abiti proposti in questo caso hanno qualcosa di malato, o addirittura di tragico, sono pronti per le sfilate, ma di fantasmi, oppure sono quanto sopravvive di povere donne condannate alla soppressione, in campi di concentramento, o a enormi roghi espiatori. E la stessa condanna, oltre che colpire gli abiti interi e farli pendere dalle grucce come fantasmi, colpisce anche tutti gli accessori, i corpi aggiunti. Si sa poi che uno stilista di moda che si rispetti deve farsi carico anche di una sezione per l’infanzia, e dunque Marras risponde pure a questo compito, allestendo delle “classi”, ma con scolaretti che anch’essi discendono a stadi animaleschi, su di loro è intervenuto qualche colpo di bacchetta magica, ma per trasformarli in piccoli mostri. Continua insomma il sistematico gioco al massacro, che in definitiva diventa quanto meno la testimonianza di una indubbia originalità e coerenza di operato, avendo una tonalità unificante nella semioscurità in cui tutto questo universo di presenze “sinistre” e angoscianti si trova immerso. Anche le sfilate ufficiali possono essere immerse in tenebre sapienti, ma poi qualche raggio di luce viene a riscattarle. Qui non c’è invece nessun intervallo, un diffuso e uniforme “aere perso” avvolge l’intero spettacolo, così come il visitatore è tenuto ad avanzare barcollando nell’oscurità, attraversando le “mises”, che peraltro frappongono ben pochi ostacoli al procedere, confermando di essere fatte della sostanza aerea e impalpabile dei sogni, anzi, degli incubi.
Antonio Marras, “Nulla dies sine linea”, a cura di Francesca Alfano Miglietti. Milano, Triennale, fino al 21 gennaio. Cat. Skira.