Giovedì scorso 14 settembre, nel quadro del Festival dell’Unità a Bologna, sono state assegnate, come d’abitudine, due targhe Volponi, rispettivamente a Mario Nanni e a Bruno Raspanti. Io sono stato chiamato a dire qualche parola sul primo, a seguito di una presentazione a cura della nipote Miretti, che è anche la più valida studiosa del congiunto. Nanni, nato nel 1922, è ora un vispo e alacre ultranovantenne. Ha visto la luce nel Chianti, di cui ai suoi inizi ha dipinto qualche veduta paesistica, ma non si è mai dimostrato amante di quei panorami fin troppo celebrati da una tradizione naturalista, anzi, trasferitosi a Bologna, ha rinnegato del tutto quel primo approccio manifestando al contrario una strenua adesione all’urbanesimo, assai più di quanto lo autorizzasse la città petroniana, che non è certo una metropoli proiettata verso il futuro. La vicenda di Nanni comincia, come quella di tanti altri, nel segno dell’Informale, ben presente dai primi ’50 nella città felsinea, ma nella versione, cara ad Arcangeli, dell’”Ultimo naturalismo”, il che implicava un forte legame con la terra, anche se era una terra colta in profondità, negli strati materici messi a nudo dagli sconvolgimenti bellici, in linea con un andare a pescare nei meandri della nostra psiche turbata da tanti eventi esteriori. C’era però un indubbio legame con la natura, per cui, dicevamo scherzosamente, la visione arcangeliana appariva immersa nella clorofilla, come testimoniavano le tre celebri “emme” su cui Momi fondava il suo discorso, Morlotti, Moreni, Mandelli, e anche in parte i coetanei o poco più giovane di Nanni, quali Bendini, Ferrari, Pulga e Vacchi. Ma appunto Nanni non ne volle mai sapere di quella variante “verde”, un colore che nel suo percorso egli ha aborrito, eliminandolo dalla sua tavolozza. Egli aderiva piuttosto alla poetica del muro, che allora trovava seguaci emeriti, da Jean Dubuffet a Antoni Tàpies. Ma in qualche modo il nostro artista andava ai primordi di quell’atto, si poneva nei panni di un muratore che aggredisce il muro con la calcina stendendovi sopra strati di bianca, opaca materia, piena di gonfiori, di escrescenze. In realtà, io avrei potuto da subito applicare a lui una frase memorabile che mi era giunta da Piero Manzoni, un mio coetaneo, e dunque più giovane rispetto a Nanni di un buon decennio, anche lui intento a seguire un percorso assai simile, dai suoi famosi monocromi, di un bianco calcinato, verso gli sviluppi ben più interessanti che già invadevano la sfera del “concettuale”. Quella frase, che purtroppo non ho conservato, mi prescriveva di dire, in un testo che avrei dovuto stendere per quelle sue opere, che lui non faceva il muro, bensì, il “gesto” del muratore, col che alludeva già a un passaggio dall’opera al comportamento. Lo stesso si può dire del nostro Nanni, che infatti, scavalcato il fatidico confine del ’60, partecipava al destino di Manzoni, e soprattutto di certi suoi colleghi romani come Lo Savio, Carrino, Uncini, ben comprendendo che, finita la stagione delle rovine postbelliche, era di nuovo apparso un “tempo di costruire”, di riconoscere che il futuro ormai spettava alle macchine. Del resto, già sui suoi soliti letti di calce l’artista usava stampare dei cerchi, pronto poi a svilupparli in altezza ricavandone dei cilindri, delle colonne. Il circolo, si rifletta, è del tutto alieno alla natura, che non vi ricorre nei vegetali e negli animali sgorganti da una sua creatività diretta, infatti una stagione fitomorfa per eccellenza quale il Liberty (Art nouveau) usava l’ellissi e altre curve “eccentriche”, mai la circonferenza, lasciando semmai quest’ultima in dote al successivo Art Déco, che non per nulla, nato negli anni ’20, tentava già di stabilire una convivenza con l’angolo retto delle macchine. Comunque, da quel momento in poi, l’intera arte di Nanni vede una coesistenza, non sempre pacifica, tra schemi circolari e altri rettilinei. In una mostra nel sotterraneo che negli anni ’60 veniva adibito dalla Galleria La Loggia in piazza Santo Stefano per mostre molto sperimentali egli riempì lo spazio addirittura di anelli pendenti dal soffitto, installazione di cui, ahimé, non abbiamo più trovato traccia fotografica. Ma quasi nello stesso tempo, rispondendo a una suggestione che gli veniva da Flavio Caroli, presenza allora molto attiva a Bologna, egli escogitò una serie dedicata al “mitico computer”, e si trattava davvero di una anticipazione “mitica”, dato che a quei tempi il computer era ancora un oggetto lontano e del tutto ipotetico, ma il Nostro già immaginava che il foglio si potesse riempire di esili tracciati lineari pronti a rimbalzare da una sponda all’altra, come in un gioco al biliardo, così riempiendo la superficie di una trama di segmenti felicemente zigzaganti. Proprio questa vocazione urbanistica, quasi rivolta a un perpetuo inno di specie boccioniana alla “città che sale”, ha portato Nanni a trasferire sulla tela delle mappe, delle piante topografiche di compiaciuto intrico, dei reticoli in cui perdersi, alternati, come avviene di norma nei progetti architettonici, con visioni in alzato, portate a un maggiore livello di precisazione. Da questo fondo laborioso, al solito, non hanno mai mancato di levarsi, come già si diceva, delle colonne, del resto pronte a macularsi, a chiazzarsi di interventi pittorici. Infatti l’arte di Nani è sostanzialmente diarchica, data questa origine, tra un Informale mai del tutto respinto e un intento costruttivista, che però a sua volta non ha mai voluto lasciarsi delibare in tutta purezza. Talvolta nelle colonne compare addirittura un effetto “Two Towers” anzitempo, cioè esse appaiono trafitte da fenditure, da tagli orizzontali che vengo a inficiarne la robustezza, magari col rischio di farle cadere nella morta gora di quel pavimento di mappe cittadine. Gli si potrebbe applicare una dicotomia centrale per i nostri giorni, quella del rigido, dello “hard”, a testimoniare di una tenace adesione allo spirito del macchinismo emerso con gli anni ’60, e quella del soft, del morbido, o diciamo pure del decorativo. Infatti l’adesione a uno spirito urbanistico e cortruttivista in Nanni non si dà mai allo stato puro, ma intende convivere sapientemente col ritorno di motivi circolari, quasi di branche che intendono aderire ai muri, alle pareti, così da dar loro un soffio di vita, un piacere policromo, una festa per gli occhi, da cui, beninteso, è assente la tonalità del verde, che non si addice a una dimensione urbana accolta come destino ultimo e insuperabile, ma proprio per questo chiamata a farsi altamente abitabile, perfino confortevole.