Forse ho maltrattato in eccesso, proprio su questo blog, Dacia Maraini e il suo penultimo romanzo, molto, troppo impegnativo, “La bambina e il sognatore”, risultato un affaticato centone di tutti i casi di maltrattamenti e abusi anche sessuali di cui, stando a tanti fatti di cronaca, soffre ai nostri giorni l’infanzia. Ora da lei ci viene un più agile “Tre donne”, che rientra nell’ambito oggi molto diffuso di una perfetta assuefazione dei nostri narratori a navigare nelle acque dell’attualità, con vicende perfettamente inquadrate nella vita dei nostri giorni, come si svolge in una grande città, distribuendo le parti giuste tra quanto è dovuto agli affetti, al sesso, alla lotta per ottenere un posto al sole, a quanto ci vuole per partecipare al comune banchetto degli usi e consumi quotidiani. E’ quell’enorme spazio oggi visitato di comune accordo da tutti i praticanti del settore narratologico, sia in veste cartacea sia filmica, che poi vuol dire elettronica, televisiva, con perfetta reversibilità da un capo all’altro. Infatti leggendo queste vicende al femminile, sembra di avere davanti un copione già pronto per tramutarsi in una puntata di qualche programma televisivo, o viceversa, di esserne il frutto a posteriori, in una assoluta equivalenza e permutabilità, di cui non sarò certo io a lamentarmi. Sono infatti un convinto sostenitore di quanto sia stato nel giusto Aristotele nel teorizzare a suo tempo la piena omogeneità tra l’epica, ovvero la narrativa in terza persona, e la tragedia e commedia, ovvero la vita umana recitata in scena. Aggiungiamo che in questa permutabilità ci sta pure il ruolo dei sessi, è più che giusto che una scrittrice rivendichi un protagonismo al femminile, riducendo la parte dei maschi. Qui infatti le tre donne, nei rispettivi ruoli di nonna, Gesuina, figlia, Maria, e nipote, Lori, sono praticamente sole, con maschi di cui sentono la necessità, per ragioni sia affettive sia fisiologiche, ma senza farsi troppe illusioni. O meglio, forse la nonna e la nipote avrebbero questa capacità, non invece la figlia, che appare come la creatura più debole. La brava Gesuina, che si guadagna la vita facendo punture, nobile tradizione già incontrata, temporibus illis, nella madre del protagonista di “Conversazione in Sicilia”, il capolavoro giovanile di Vittoprini, sa farsi gioco abilmente degli amori insostenibili di un fornaio, preso abilmente a gabbo. Della nipote, che in definitiva è il vero motore di questa tenue vicenda, dirò tra poco, mentre la creatura di mezzo, Maria, risulta essere la più debole, vittima senza difesa delle insidie di un maschio traditore, di un tale François insignito di tutti i caratteri di cui il punto di vista al femminile può gravare e accusare la controparte: falso intellettuale, egoista all’ultimo stadio, sempre pronto a fuggite, a tirarsi indietro. Il guaio è che non lo fa quando, in una di quelle rare visite periodiche che rende a Maria, non si trattiene dall’avere un rapporto, toccata e fuga, con l’avvenente figlia di lei, al punto tale da lasciarla incinta. E qui appunto si ha una prova in più di quanto Maria sia il lato debole di questo triangolo, essa non regge al colpo nell’apprendere che l’amato partner non solo è evasivo, sfuggente, ma che addirittura ha fatto una avance molto concreta verso la figlia. Il mondo le crolla addosso, fino a tentare il suicidio con la solita dose massiccia di tranquillanti, espediente le mille volte agitato e messo in atto, quasi sempre consentendo un salvataggio in extremis. E dunque, triste situazione delle nostre “donne sole”, una anziana e ormai fuori gioco, una di mezzo, priva di ogni illusione, il che del resto si può dire anche della giovane. A questo punto, però, mi chiedo se non sia lecito saltar fuori da una dimensione narratologica, che si fermerebbe a una simile triste constatazione di fatto, per imbracciarne invece una etico-psicologica. Del resto, forse che la Maraini non è una autorevole opinionista proprio su quest’ultimo piano e dalle colonne del “Corriere”? Possibile che non le venga spontaneo di suggerire alla sua eroina di fare la cosa più naturale e funzionale, data questa gravidanza assolutamente impropria e sbagliata: ricorrere a una pratica abortiva. In fondo, le nostre protagoniste vivono in una grande città, non sono legate a valori religiosi, il mondo rurale o di tradizioni ottocentesche è remoto. E dunque, la scrittrice sia coerente con la sua stessa piena adozione di una “way of life” all’altezza dei nostri giorni, imponga d’ufficio alla sua giovane creatura di sbarazzarsi di quella scomoda soma, unica mossa per rientrare nella normalità.
Dacia Maraini, Tre donne, Rizzoli, pp. 207, euro 18.