Anche la visita virtuale di questa domenica non mi porta molto lontano da casa, mi basta giungere a Milano, Galleria Bottegantica, dove si vedono valide rassegne dedicate al nostro Ottocento, cui anch’io in passato ho attinto per averne consistenti prestiti di capolavori. In questi giorni vi si può ammirare una bella rassegna dedicata a Antonio Mancini (1852-1930), con un numero conveniente di dipinti ben distribuiti lungo l’intero arco della sua attività, che fu lunga e nel segno di una sostanziale continuità. Certo, a celebrarne meglio la qualità ci vorrebbe una mostra ancor più ampia, presso qualche sede maggiore. Non si vede per esempio perché a ciò non pensi il padovano Palazzo Zabarella, piuttosto che continuare a pestare la solita acqua nel mortaio, insistendo sui tre “Italiani di Parigi”, tra cui ora è di turno il mediocre Zandomeneghi, lo scarso imitatore di Degas, colpevole di averci meritato l’accusa di essere inferiori per costituzione ai nostri cugini di Parigi, accusa da cui si tira fuori elegantemente Boldini, e anche De Nittis, se gli si perdonano i tuffi nel bel mondo e si guarda agli sfondi concessi a un “non finito” sfuggente ed enigmatico. Ma in definitiva anche Mancini fu a Parigi, e presso quella medesima Galleria Goupil che accoglieva anche gli altri nostri esponenti. In primo luogo però bisogna far pesare quella decina d’anni in meno che il Nostro aveva rispetto agli Impressionisti patentati, e che di conseguenza lo spingeva, assieme ai coetanei, verso le vie incognite del post-impressionismo, percorso in vari modi e con diverse soluzioni. La sua fu di rincarare la dose della densità di pennellate, gravandole di un materismo che quasi balzava fuori dalla tela, richiedendo di essere modellato non tanto col pennello ma con le dita, a raggiungere un rilievo plastico, tridimensionale. Si noti che questa soluzione del caricare i tessuti e di marciare verso un espressionismo avanti lettera fu pure di un suo eccezionale coetaneo, Van Gogh, almeno fino a quando, emigrato a Parigi, non vi incontrò la forte personalità di Gauguin, che però seguiva una via opposta, per uscire pure lui dalla trappola di un impressionismo divenuto ormai tardivo e pesante. Come si sa, Gauguin stese i tessuti adottando l’”á plat”, in nome di esso ingaggiando epici scontri con l’affascinato ma incerto Olandese, e inaugurando la sintesi, fino all’astrazione. Questa non fu certo la soluzione preferita da Mancini, che condivideva l’intensità di materia con un altro napoletano di complemento, giunto pure lui da altre parti, Michetti, entrambi attratti dall’arrivo sulla scena partenopea di un impressionista eteroclito, grande spadaccino di impavide stoccate, quale fu il catalano Fortuny. Ma non deve sfuggire che proprio per dare respiro al “tutto pieno” delle sue superfici fin troppo gremite, Mancini sapeva apprestare per loro degli slarghi, degli spiazzi, delle aree di distensione. Per questo verso è magistrale il capolavoro iniziale del ’74, “Acque basse”, dove il peso altrimenti esagerato del busto dello scugnizzo, con la folta zazzera e le maniche accartocciate, poggia su un ripiano visto di taglio, lungo e sottile, ma solido e resistente, con un altro scugnizzo a fare da contrappeso a una estremità, altrimenti, chissà, quel sostegno sottile potrebbe ribaltarsi, dare di volta. Del resto, se non reggesse al peso di cui è gravato, subito sopra si distende un altro ripiano, gremito dei dorsi di libri, modellati sempre con quegli spessori che sembrano balzare fuori dalla tela, mirare a una loro autonomia. Questo è un tratto generale sempre confermato, fino alla fine, dalla pittura del nostro artista, la pochezza, il rischio di cadute nel folclore da cui nin sono esenti gli scugnizzi, le contadinelle, le bambine un po’ troppo graziose e manierate, è sempre riscattato dagli oggetti su cui questi soggetti allungano le mani, o che li circondano in fitta schiera, quasi prevaricando sul tema di figura, passando a svolgere mirabili brani di ortaggi, di frutta, o magari anche di cianfrusaglie, di paccottiglia varia, che sarebbe sbagliato definire con l’epiteto delle “nature morte”, quando al contrario sono nature vive, fragranti, o addirittura flagranti, pronte a scoppiare come fuochi d’artificio, producendosi in pazze girandole. Non fosse per la stesura rotta e ansimante, lungo questa strada Mancini troverebbe altri suoi coetanei che risolvevano il problema di come uscir fuori dall’impressionismo imboccando la via di un iperrealismo spinto. Penso a un quartetto di artisti cui ho tentato disperatamente di dedicare una mostra globale, ma invano, tali da unire il Sud e il Nord dell’Europa, lo spagnolo Sorolla e gli scandinavi Zorn, Kroyer, Krohg. Del resto tornando in terra di Francia, in quel suo farsi superbo pittore di interni Mancini raggiungeva autori posteriori a lui, e in fuga dall’”á plat” di Gauguin e dei Simbolisti, dopo averli frequentati inizialmente. Penso a Bonnard, a Vuillard. Ma, considerando la sua lunga durata, e il suo impegno costante a tuffarsi nella materia, ad affondare in grovigli inestricabili di ortaggi, frasche, accartocciamenti di indumenti, ci starebbe anche un accostamento al grande Monet degli ultimi esperimenti, intento pure lui a immergersi, ad annegare nella palude delle Ninfee. Il Nostro a tale scopo non aveva bisogno di costruirsi bacini artificiali, gli bastava andare ad annusare, anzi, a ficcare le mani, le dita nei tesori di sensibilismo che gli offrivano i mercatini rionali, o gli abiti spiegazzati delle persone da lui ritratte.
Antonio Mancini. Genio ribelle, a cura di E. Savoia e S. Bosi. Milano, Bottegantica, fino al 18 dicembre.