Letteratura

Maggiani e il romanzo misto di storia e d’invenzione

Maurizio Maggiani forse non se n’è accorto, ma con le sue ultime opere narrative, “Il romanzo della nazione”, del ’15, e l’attuale “L’amore”, di cui vado a parlare, rientra in pieno della formula manzoniana del “romanzo misto di storia e d’invenzione”, una coesistenza difficile da amministrare, col rischio che una delle componenti finisca per dominare sull’altra. E’ successo a Don Lisander, che dopo i “Promessi sposi” non ha più tentato di vivacizzare i fatti storici con l’aggiunta della trama, il romanziere è morto in lui, sostituito dallo storico puntiglioso e scrupoloso. Qualcosa del genere l’ha rischiata anche, di recente, Antonio Scurati, che col suo monumentale “Mussolini”, mentre ha raccolto una enorme messe di documenti, proprio da storico puntuale, si è visti ristretti gli spazi per la “fiction”, mentre nel precedente “Il tempo migliore della nostra vita” aveva tentato un compromesso ingegnoso, da una parte il blocco “storico” corrispondente a una attenta ricostruzione della biografia di un protagonista degli anni attorno alla metà del secolo scorso, Leone Ginzburg, ma affiancato, intervallato, dalle vicende oscure della sua stessa famiglia. Qualcosa del genere lo aveva fatto pure Maggiani nell’opera precedente, in quanto i fatti privati della sua famiglia erano stati messi a riscontro con quelli dei padri fondatori della nostra unità nazionale. Ora invece Maggiani fa saltare le paratie tra una dimensione e l’altra, ci offre un narratore in prima persona, tanto presente e ossessivo da non darci neppure il suo nome, il quale, dalla sua posizione di persona agiata, in possesso di un certo benessere, si china nel pozzo del tempo per andare alla ricerca delle varie fasi della sua esistenza precedente, facendo in modo che gli eventi del tutto privati di questa interferiscano con quelli pubblici. E soprattutto, evitando una esposizione “per filo e per segno”, ma saltabeccando da un capo all’altro di questa trama, come un Marcel pronto ad afferrare la resurrezione del tempo secondo appigli, spunti, suggerimenti del momento. Infine, facendo anche attenzione che nel dosaggio risultante il momento del privato sia più consistente e gratificante, sia per chi scrive che per chi legge, rispetto ai fatti pubblici. Non per nulla in primo piano ci stanno le relazioni sentimentali, o diciamo pure erotiche del soggetto che si confessa, come attesta il titolo di questa confessione, appunto l’amore, che però è parola infelice, come deve ammettere l’io che ci parla, costretto a rievocare una ragazza del passato, di stagioni ruggenti e bellicose, quando “dire ti amo appariva del tutto fuori luogo “ (p. 110). A proclamare con sicumera questa regola era, tra le altre adolescenti frequentate, la “luxemburghiana”, appartenente cioè a una delle varie sette e colorazioni ideologiche che nel corso di questa lunga confessione entrano in accordo o in collisione con il “privato”. Ora in un certo senso colui che narra (non bisogna fare l’errore di identificarlo con lo stesso Maggiani) ha raggiunto la pace dei sensi, vive in convincente accordo con la moglie, e dunque un termine pieno ed enfatico come “amore” potrebbe essere davvero accettabile, ma diciamo la verità, i passi godibili di questa narrazione ci sono quando l’austero commentatore, avanzato negli anni, ci parla dei rumori che dal giardino gli fanno giungere il tasso e la volpe, o quando egli si impegna in cucina, a preparare le frittelle di baccalà, o a pelare le patate. Soprattutto sfilano gli “amori”, ma per fortuna in versioni molto prosaiche e volgari, e trascinandosi dietro, ciascuno di essi, una fetta di tessuto pubblico. Si succedono così la Patri, la Sandra, la Chiaretta, colte, fatte rinascere, ciascuna di loro, assieme a un buona fetta di tessuto storico, per cui, di nuovo, traspare, in punteggiato. “il romanzo della nazione”. In un certo senso si potrebbe dire che ora Maggiani si affida a un enorme monologo interiore che assume anche i tratti a ruota libera, casuali, di una “corrente di coscienza”, quasi alla maniera del finale dell’”Ulisse” joyciano. Ma l’autore deve stare attento, questo continuo frammentare il filo del discorso, questo saltabeccare da un ricordo all’altro, alla fine potrebbe diventare anche stancante, un eccesso di divisionismo psichico può portare a un esito monotono, indifferenziato. In fondo, Joyce, almeno nel suo capolavoro, non si è affidato del tutto alla corrente di coscienza, lasciandola solo come capitolo terminale, mentre nei capitoli precedenti si è valso di fili conduttori, andando addirittura a prendere come guida i libri dell’Odissea. In altre parole, caro Maggiani, faccia attenzione, un po’ di disordine nell’afflusso dei ricordi e delle sensazioni può essere piacevole, ma un loro accumulo disordinato può alla lunga risultare difficile da sopportare. Ovvero un affluire eccessivo di eventi porta quasi a spegnerli, ad azzerarli.
Maurizio Maggiani, L’amore, Feltrinelli, pp. 195, euro 16.

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