Ancora una volta devo a “Artribune” di avermi informato che le Gallerie dell’Accademia di Venezia hanno inaugurato nuovi spazi in cui domina una “Deposizione” di Luca Giordano, non si sa bene se dipinta di sua mano o da qualche copista fedele, il che comunque conferma che di quell’opera si era intesa tutta l’importanza. Per mia parte, non ho certo esitato ad attribuire a quell’artista un ruolo primario nell’imprimere una svolta al barocco che tanto aveva nobilitato le pareti delle chiese e dei palazzi romani, con Pietro da Cortona alla testa. Luca aveva ben compreso che bisognava alleggerire quelle forme troppo pesanti, trattarle in modi più spigliati, più ariosi, così stabilendo il transito dal barocco a quello che non per niente è stato detto barocchetto, visto anche in sinergia con un’altra etichetta, il rococò. E’ stato il canto del cigno del primato dell’arte italiana, adatta soprattutto per i Paesi di tradizione cattolica, buona cioè, oltre che per l’Italia stessa, per la Spagna, per l’Austria e territori annessi, non certo per i Paesi di fede protestante. E perfino la Francia ha resistito a quell’ondata, fiera della corrispondenza tra l’arte severa di Poussin e l’insegnamento cartesiano. A dire il vero, nel dipinto di Luca in questione non emerge una delle sue caratteristiche fondamentali, l’adozione di una tavolozza fondata su tinte chiare, argentine, lasciandosi alle spalle il tenebrismo pesantemente caravaggesco di un Mattia Preti, cui però sacrifica ancora un egregio rappresentante di quella stagione estrema, il Piazzetta. In quel suo andare in bianco, in un trasparente chiarore di tinte, Luca apre la strada a Giambattista Tiepolo. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di dare fuoco alle polveri di un canto del cigno, di una cultura e società ancora legate all’ancien régime, quando già in Inghilterra, con William Hogarth, e in Francia con Watteau, e poi Boucher, e Chardin, emergono nuovi parametri, meglio rispondenti all’imminente età dei Lumi e il suo passo in avanti verso la modernità. Di cui del resto qualche eco non manca neppure presso di noi, magari da ricercare proprio nella grande famiglia dei Tiepolo, entro cui uno dei figli, Giandomenico, già prepara l’atterraggio, rispetto ai voli industriosi del padre. Le figure si impiantano sul suolo, magari indossano una maschera e voltandoci le spalle, a dichiarare un disimpegno. Del resto abbiamo pure avuto un Pietro Longhi, capace di porsi come antistrofe al grande Hogarth, e un Ceruti, solido anche lui, fermo, monumentale, anche se rivolto a promuovere gli umili, gli ultimi della terra. E che dire di tutta la schiera dei vedutisti, a cominciare dal Canaletto? Certo è che i turisti inglesi, in visita a Venezia, non cercavano di acquistare bozzetti del Tiepolo, invitandolo magari ad affrescare le loro pareti, bensì le vedute minuziose di Canaletto e compagni. Ma torniamo a Luca, e ai suoi sapienti, scapricciati volteggi, alleati sia all’andare in bianco, al deporre la soma delle tinte scure, sia a un procedere rapito, il cosiddetto “far presto” con cui è passato alla storia. Al momento, di tutto questo nel dipinto esposto a Venezia c’è solo la disinvoltura, l’atletismo sciolto del cadavere di Cristo, quasi di paracadutista in caduta libera, del resto già adeguatamente illuminato da una luce di scena che ne rende biancheggiante il corpo, avvitato su se stesso, come un mescolo che agita e commina un moto vorticoso a quanto bolle in pentola. Sono lontani le mille miglia i rigori cartesiani di Poussin e compagni, la nostra cultura e società e religione vuole fare da sé, sentirsi ancora libera e padrona del campo, finché ciò può durare.