Giò Marconi, nel suo spazio anch’esso in Via Tadino, ma distinto da quello del padre, sta svolgendo l’utile impresa di riproporre certi artisti già appartenuti alla squadra del padre Giorgio, ma al momento da lui abbandonati, per sue ragioni di salute. Così è stato nel caso di Emilio Tadini, e in questa rubrica io ho dato atto dell’opportunità dell’operazione. Ora il fatto si ripete a proposito di Louise Nevelson, uno dei pochi artisti stranieri di cui si poteva gloriare l’équipe di Giorgio Marconi, anche se il figlio si limita a proporre l’artista solo in maniera minore, con una serie di collages, ma ugualmente significativi. Non ci sono quindi quei maestosi blocchi lignei con cui la Nevelson, 1899-1988, in realtà di nascita ucraina con un cognome impossibile, poi spianato nel ben più accessibile con cui ha raggiunto la notorietà in forza del matrimonio con uno statunitense, finito con un divorzio proprio alle soglie del momento in cui la Nevelson, come lei stessa decise di farsi chiamare, era alle soglie della celebrità. E appunto Giorgio Marconi fu pronto a metterla sotto contratto, mentre anche la Biennale di Venezia la celebrava, con quel suo stile che si poneva all’incrocio di varie piste. C’era un minimalismo per quei suoi blocchi squadrati, massicci, ma anche una derivazione Pop, in quanto quei complessi, in genere lignei, erano fatti con materiali presi dalla strada, dall’attualità. Ma nello stesso tempo c’era pure un tocco di citazionismo, dato che quei materiali erano i cascami di case della belle époque, erette con un gusto Art Déco, con ricordi del colonialismo soprattutto di stampo relativo agli States del Sud. Sentivo dire che a New York era facile capire dove la Nevelson aveva lo studio, perché si vedevano file di ragazzi che le portavano quei trofei, quei resti di dimore di alto bordo, usciti fuori da qualche demolizione, o addirittura estratti, smontati per ricavarne un bottino, che l’artista compensava con laute mance. Ma non ho menzionato ancora il dato più rilevante che dava all’artista una posizione del tutto particolare, pur nella navigazione tra quei vari stili menzionati sopra. Era la tinteggiatura monocroma che veniva assegnata a quei blocchi ingegnosi, con tre colori, o forse meglio dirli non-colori, portatori di un forte peso simbolico. C’era un nero funereo, in alternativa un bianco, che dopotutto per certe culture è anch’esso indicatore di lutto e di morte, e poi ancora una doratura, che era il segno di una nobiltà, in definitiva già insita nei materiali assemblati, ma che in tal modo veniva portata a un massimo di evidenza e di splendore. Naturalmente i collages ora in mostra da Giò Marconi rendono di questi superbi caratteri una versione ridotta. Dominano i legni, come delle impellicciature scorticate dai mobili, e dunque prevale il colore ocra austero delle cortecce, ma nell’occasione l’artista si spinge a sperimentare una tavolozza di colori più accesi e variati, uscendo dalle sue scelte ternarie, e compare perfino qualche elemento circolare, che mi sembra essere stato del tutto estraneo alle sue scelte finali, affidate a una corretta manifestazione di orizzontali e verticali. Insomma, come è nella natura delle fasi grafiche, l’artista esce dalla fissità delle sue soluzioni maggiori, tenta e sperimenta in modi più mobili, nel che è il fascino della mostra, capace in tal modo di sfuggire al rischio di venire giudicata come una prestazione minore.
Out of Order, i collages di Louise Nevelson, Milano, Galleria Giò Marconi, fino al 29 luglio.