La Galleria fiorentina dell’Accademia annuncia la riesposizione al pubblico di un capolavoro di Lorenzo Monaco, “Orazione nell’orto”, col che si può riaprire un discorso sulla fase finale del Gotico, di fine Trecento, di cui questo artista (1370-1428) è stato senza dubbio uno dei principali protagonisti, nella variante che non si può certo indicare con l’epiteto di “fiorita”, per un eccesso di ornamento e di festosità che la caratterizzavano, di cui semmai i migliori rappresentanti nostrani furono Gentile da Fabriano e soprattutto il Pisanello, Ovviamente, proprio in quanto monaco, Lorenzo doveva accedere a una variante di particolare austerità, rivolta a coltivare in esclusiva la tematica religiosa, con relativa connessione a tutti gli stilemi ortodossi. Egli ci introduce al dramma di certe fine-secolo in cui appunto le soluzioni precedenti sembrano impazzire, accentuare il ritmo, la frequenza, quasi assecondando il detto secondo cui “motus in fine est velocior”, della trottola che gira più vorticosamente bruciando ogni risorsa rotatoria prima di fermarsi per sempre. Infatti il nostro Lorenzo, pur affacciandosi al nuovo secolo, è del tutto estraneo alle soluzioni che si diranno rinascimentali, coltivate da personaggi in definitiva non molto più giovani di lui, quali il Beato Angelico e Paolo Uccello, del resto anche loro non estranei alla sopravvivenza di qualche traccia gotica. Cosa che del resto si può ripetere perfino per lo stesso Brunelleschi, un “pratico” di soluzioni rinascimentali, quasi coetaneo di Lorenzo, molto diverso dal teorico, e perfetto rappresentante di un mutamento radicale, quale sarà Leon Battista Alberti, la cui “camera”, coll’unico punto di fuga, è l’anticipazione perfetta della prospettiva “moderna”, capace di correre in avanti fino ad anticipare la fotografia. Invece in quest’opera lo spazio è come rannicchiato e contratto, crea anse, occhielli entro cui le figure si raggomitolano, costrette a entrare in spazi ridotti, tali da esercitare una compressione sui corpi, e sugli abiti, anch’essi costretti a dar luogo a pieghe sghembe, E naturalmente siamo lontanissimi da un’unica scala dimensionale, quale verrà adottata, e rispettata, da tutta ì’età “moderna”, e proprio il venir meno a quella concezione omogenea dello spazio sarà un indice prezioso di uscita dal moderno per invadere i territori più tempestosi del contemporaneo, come toccherà dimostrare ai Fuessli e Blake e compagni della grande svolta di fine Settecento. Se si vuole un’appendice a conferma di un simile spazio contratto, basta esaminare la predella di questa tavola, con le sue cornici a più lobi, fatte apposta per costringere i corpi a miracoli di equilibrio per stare dentro a quelle cellette. Il passaggio al moderno starà proprio nel distendere quelle curve, nel raddrizzarle, come avverrà nelle porte del Ghiberti, un talento del tutto su misura di Lorenzo, anche lui affezionato nel confezionare la prima porta del Battistero a far uso di una struttura basata su lobi costringenti, poi deciso a distenderli in misure quadrangolari più razionali. Un simile destino di fine secolo, con soluzioni impazzite prima di sparire per sempre, lo ritroviamo al termine del Cinquecento, con le ultime vampate del Manierismo, ma ormai inseguite da vicino dalle misure più distese, più vicine a effetti verosimili, dei rivoluzionari Caravaggio e Carracci, che poi segnano il ritmo vincente per almeno due secoli di arte occidentale, finché, nemesi storica, lo spazio torna a contrarsi, a divenire disomogeneo, come avviene con i sopra citati Fuessli e Blake, e anche Goya e Turner.