In genere un criterio che seguo per andare a valutare una qualche opera, sia essa di ordine visivo o narrativo, sta nel verificare se nell’autore, al di là delle inevitabili variazioni da un prodotto all’altro, ci sia una linea di continuità, di coerenza, magari da rintracciare frugando con cura nelle pieghe del racconto o del dipinto. Nel caso di Marco Lodoli, una simile ricorrenza potrebbe stare in un certo nomadismo del o della protagonista, costretti a uscire allo scoperto, a sperimentare casi diversi, intraprendendo una specie di corsa “al termine della notte”. Così era in quello che ancor oggi mi sembra il suo racconto più persuasivo, pur o forse proprio a causa della sua elementarità. Se non sbaglio, si tratta di “Crampi”, del 1992, facente parte di una trilogia, e anche questo è un modo di procedere tipico di Lodoli, rientrante in questo suo spirito deambulatorio che ha bisogno di articolarsi su vari percorsi. In quel racconto ci viene presentato un essere molto semplice che intraprende una corsa misteriosa in compagnia di una capra, lungo un tragitto quasi fine a se stesso, come prova di ardua ed estrema corporalità. Sono ben lungi dall’aver seguito Lodoli nelle tante sue prove successive, ma almeno una di queste ha ricevuta la mia attenzione, “Vapore”, del 2013, che mi è capitato di recensire su “Tuttolibri”, quando questo inserto si degnava di ospitarmi. In quel caso da un protagonista al maschile si passa a uno al femminile, del resto la presenza di una sorta di equazione dominante implica che alle sue incognite si possano, anzi, si debbano dare di volta in volta soluzioni diverse, anche per imbrogliare le piste. Nulla da spartire con quel rozzo corridore della prova precedente, qui siamo di fronte a una anziana signora, abbandonata da marito e figlio, che per sbarcare il lunario deve cercare di affittare una casa di villeggiatura ormai divenuta per lei superflua, e dunque la narrazione si snocciola in una serie di incontri con clienti ipotetici, quasi in un gioco dell’oca, in una serie di “stazioni”, di medaglioni dedicati a tanti personaggi, abbozzati di fretta. Ora ho letto l’ultima uscita di Lodoli, “Paolina”, e beninteso di nuovo mutano i dati assegnati all’equazione di base, ma non senza che questa riaffermi la sua presenza e validità. La protagonista è una ragazza ancora minorenne, appunto Paolina, che a un tratto si scopre incinta, ma non sa bene di chi, ha avuto ben pochi rapporti sessuali, in definitiva riconducibili al numero di tre. La sua condizione sociale è di totale disagio, la madre è stata abbandonata dal marito e si rompe la schiena in duri lavori per mandare avanti il misero ménage domestico, però Lodoli sa bene che deve evitare di cadere nelle spire di una lacrimosa vicenda ottocentesca, perbacco, viviamo in pieni anni Duemila, Paolina non è certo del tutto abbandonata a se stessa, può ricorrere a un centro assistenziale che le prospetta la scelta perentoria, disfarsi del figlio sgradito nutrito in seno, ma entro i tempi giusti in cui è consentito un aborto per legge, o diversamente tenerselo, o ricorrere a qualche mammana. Questo spunto di trama consente a Lodoli di innescare il suo nomadismo, ovvero il motivo di una “quête”, un “giro delle tre chiese”, una visita ai tre possibili padri putativi, il che consente anche di tratteggiare profili diversi, c’è il ragazzo di buona famiglia, compagno di una vacanza scolastica, che resta sbalordito, ma anche schifato da quella possibilità, o invece il “figlio dei fiori”, rotto a tutti gli stratagemmi di un vivere disordinato, o un altro che ha nel cuore solo la prestanza fisica in vista di una carriera atletica. Si noti che uno schema del genere ha una esistenza ufficiale negli annali della narrativa, l’ha sfruttato perfino l’ex-ministro Dario Franceschini in un suo romanzo, “Daccapo”, dove ha addirittura esagerato nel numero degli incontri, inflazionando lo schema, inducendo l’eroe di quella vicenda a fare visita alle ben 72 donne con cui ha procreato altrettanti figli. Per fortuna Lodoli non è così straripante, come detto, si ferma al numero di tre stazioni, e in definitiva il romanzo consiste quasi per intero nel proposito di caratterizzare queste tre esistenze, in una parca enciclopedia delle attuali modalità di vita. Questi incontri risultano ogni volta deludenti, inconcludenti, la povera Paolina resta abbandonata a se stessa, all’angoscioso problema di quale soluzione dare alla sua gravidanza. Per fortuna Lodoli non ricade nei lacci di un vecchio realismo d’antan, peraltro ricalcato pure da tante situazioni dei nostri giorni, non ci sono gli esiti tristi di una ragazzina che lascia il feto appena sfornato in un cassonetto, o sulla tomba di qualche caro congiunto deceduto, andandovi a morire lei stessa. Lodoli sa bene che finali di questa specie oggi sono impraticabili, d’altra parte non gli viene in mente una soluzione alternativa da imboccare, il che è di nuovo un tratto rientrante nell’equazione generale regolante l’intera sua narrativa: non concludere, lasciare la storia in sospeso.
Marco Lodoli, Paolina, Einaudi, pp. 97, euro 14.