Arte

L’iper-realtà di Mario Cavaglieri

“Artribune” nella sua utile rubrica dedicata ai “dimenticati nell’arte”, il 18 luglio scorso ha dedicato un pezzo a Marco Cavaglieri (1887-1969), che forse proprio un dimenticato del tutto non si può definire, io stesso credo di essermene occupato alcune volte. Ma certo fu un caso abbastanza isolato, anche se gli andò molto vicino Felice Casorati nel suo primo tempo, che si svolse nel segno di un decorativismo carico, policromo, eccessivo, da cui però ben presto l’artista torinese presto uscì fuori, smagrendo il suo stile, scegliendo come motivo ispiratore la sostanza di un legno duro, coriaceo, con cui eresse le sue effigi tipiche del novecentismo. Invece Cavaglieri continuò imperterrito per la stessa strada, di interni favolosamente appesantiti di tutti i possibili orpelli e ammenicoli, e arredi proposti dalla moda del tempo, pronti ad avvolgere e quasi a coprire sotto il  loro spesso strato perfino le immagini umane, fossero pure quelle di donne sfarzose, dell’alta società. Gli si suole accostare anche l’opera di De Pisis, ma pure il ferrarese, come il piemontese, si impresse una cura dimagrante, alleggerendo gli strati di pittura, anzi, riducendoli a un rapido tratteggiare, tanto per dare vitalità ai lacerti, ai frammenti spaziali, che poi l’artista ferrarese andava a comporre in architetture non immemori degli insegnamenti della Metafisica nascente attorno a lui. Invece il nostro Cavaglieri ha continuato a svolgere la sua musa parossistica, al punto che, fosse vissuto ai nostri giorni, forse avrebbe potuto farsi tentare dalle resine e dai poliuretani sul tipo di quelli adottati da  un Gilardi o da un Dwane Hanson, tanto i suoi dipinti si presentano carichi sotto il peso di strati di colore che sembrano voler balzare fuori dalla tela, per inseguire un effetto “più vero del vero”, quasi che con tocco di bacchetta magica egli riuscisse a far emergere da una dimensione virtuale quei suoi “interni, colmi di mobili pieni di cianfrusaglie, di abiti di moda complicati e pesanti, dando loro una consistenza fisica, reale. Il che rene anche difficile un accostamento al francese Bonnard, che pur distinguendosi dal concorrente Matisse per un “tutto pieno” di dati pittorici, manteneva tutto sommato qualche residuo di economia riduttiva. In conclusione, Cavaglieri si trovò  quasi in solitudine a praticare il suo intimismo robusto, parossistico, pronto a balzare fuori dalla tela per tentare di conquistare più tangibili traguardi.

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