Oggi mi concedo un viaggio e visita virtuale alla londinese Royal Academy of Arts per ammirarvi la retrospettiva dedicata a Etienne Liotard (1702-1789), che può ambire al titolo di essere considerato il maggior artista del secolo. Lo predispongono a una qualifica del genere, intanto, i dati cronologici, che lo portarono a occupare per intero il Settecento, nonché le sue varie deambulazioni, lui nato per caso in Svizzera ma da famiglia francese, poi attivo in Italia, in Turchia, a Vienna, a Londra, a Parigi. Ma soprattutto, lo si può definire proprio l’artista dell’età dei Lumi per un suo perentorio, coerente, continuo rifiuto degli sfondi scuri, terrosi, che invece erano stati assunti come regola obbligata dagli artisti del secolo precedente. Da Caravaggio ai nostri Carracci, Rubens, Rembrandt. l’intera internazionale dell’arte europea si era avvolta nel tenebrismo. Invece il Settecento, in linea di massima, virò di bordo e si diede a praticare un chiarismo programmatico, e tra i primi a farlo ci furono proprio alcuni Italiani, pur eredi della grande maniera barocca, si pensi a Luca Giordano, a Giambattista Tiepolo, che ben compresero come si potesse ancora procedere a presentare i laboriosi viluppi di corpi cari all’età precedente, pur di servirli con una tavolozza schiarita, passando a praticare tinte caramellose e perfino svenevoli. Lo capì soprattutto il migliore dei figli del Tiepolo, Gian Domenico, che nello stesso tempo, accanto all’adozione di tinte luminose, comprese che anche gli atteggiamenti delle persone messe in campo dovevano essere raddrizzati. Il nostro Liotard ignora qualsivoglia tentazione di tenebrismo adottando fin dall’inizio il pastello, con cui riesce materialmente impossibile fare scuro, inoltre è una tecnica assai vicina al disegno, quello che ci vuole se l’impegno principale è rivolto ai ritratti, quale fu in effetti la principale vocazione e missione del nostro artista. Col pastello non si riesce a coprire la superficie del dipinto con un’invasione di tenebre, queste sono scongiurate, non possono pretendere di aggredire e corrodere i lineamenti delle figure messe in posa. Il rifiuto di una tavolozza terrosa e ocracea si accompagna per contrasto alla necessità di accordare la precedenza a tinte azzurrine, squillanti, irrorate di fruscianti effetti serici, quali infatti accompagnano gli accurati ritratti eseguiti dal Nostro, che in genere si presentano avvolti in confezioni degne di prodotti di pasticceria, come caramelle, bon bon o altra roba del genere, quasi in un preannuncio del kitsch prossimo venturo. Infatti è difficile dire se il massimo dell’attenzione il nostro artista lo rivolge ai lineamenti delle illustri persone ritratte (ma a volte entrano nel suo mirino anche cameriere e servette), o invece ai rigatini degli abiti, e soprattutto delle stoffe di morbidi divani in cui i modelli, o meglio le modelle, per una decisa preferenza accordata all’universo al femminile, siedono con grazia e compunzione, evitando di affondarvi, lasciando che anche il mobilio, nell’effetto di insieme, faccia la sua parte, si squaderni nitido e leggero alla nostra attenzione. Il miracolo di questo universo civettuolo, che non si vergogna di ostentare la propria fatuità, non si arresta alle stoffe dei divani, o ai servizi sciorinati su tavolini deliziosamente fragili, secondo un gusto che viene dall’Oriente, o comunque entra in consonanza col clima rococò, lasciandosi alle spalle anche per questo verso i pesanti apparati secenteschi. Quelle stesse nature morte sono pronte a balzar fuori dai piani d’appoggio dei tavolinetti per essere afferrate e messe in bella mostra dalle figure. Ovvero, i personaggi candidati alla gloria del ritratto per il loro elevato stato di fortuna fermano per un istante le mosse del paziente fotografo chiedendo di comparire anche con qualche elemento che ne qualifichi e attesti ulteriormente i titoli di eccellenza. A questo modo Liotard entra in gara con un altro artista che potrebbe contendergli la pretesa ultima alla qualifica di “miglior fabro” del secolo, si pensa all’interamente francese Chardin quasi perfetto suo coetaneo (1699-1779), che però gli è decisamente inferiore nell’ambito della ritrattistica, in quanto i suoi busti di damine, o di adolescenti vogliosi di esplorare i loro immediati dintorni, sono colti dal medesimo senso di ferma immobilità che per colpo di bacchetta magica blocca e sospende gli oggetti attorno ad essi. C’è insomma un’accurata regia formalista nei dipinti di Chardin che li porta a presagire le sintesi plastiche a venire, fino ad anticipare il Cubismo, ma una proiezione del genere, per quanto provvida e geniale, ha però l’effetto di congelare il suo mondo, di fissarlo in misure senza dubbio perfette ma un po’ ossificate, laddove il suo contendente Liotard è totalmente libero e sciolto, può trascurare ogni obbligo verso la forma per attenersi a una schietta, disincantata registrazione dei valori visivi, quasi come un fotografo anzi tempo, iscrivendosi così in una linea di iper-realismo, di super-oggettività. Dovremo attendere parecchio tempo prima di vederla ricomparire.