Gianfranco Maraniello, direttore del Mambo di Bologna fino a questi giorni, prima di passare a dirigere il MART di Rovereto, ha concluso questa sua fase alla testa del museo petroniano proponendo due monografiche di artisti poco noti ma stimolanti, uscendo fuori da una rotta più usuale negli omaggi a figure già ben conosciute nel mondo dell’arte recente. Tra la fine dell’anno scorso e gli inizi di questo ha ospitato una monografica di Lawrence Carroll, forse troppo diluita sia nel numero sia nella consistenza dei pezzi, contro cui contrasta l’esiguità degli interventi, però fini e sensibili, e dunque non del tutto estranei alla personalità di Morandi cui questo artista si vuole richiamare. Ancora più intrigante l’attuale mostra del cinese Li Songsong, che mi permette di ricollegarmi a quanto osservavo la settimana scorsa con riferimento all’arte della Dumas, accennando a un riaprirsi del “combattimento per un’immagine”, tra pittura e fotografia, che sembrava essersi ormai chiuso a vantaggio esclusivo della seconda, con cancellazione della prima. Ora invece la “vecchia signora” si riaffaccia sulla scena, ma senza prendere vie in proprio, bensì esercitando proprio un tallonamento della rivale, colpo su colpo, col proposito di riscattare l’approccio fotografico dai rischi di impersonalità, insensibilità, stereotipia cui cede quasi per costituzione. Anche questo artista di Pechino, nato nel 1973, viaggia di conserva rispetto ai responsi della fotografia versata sull’attualità, a cominciare dagli aspetti più anonimi e ufficiali: leader politici in posa, sfilate per le strade, vedute urbane, il tutto nel nome di una sciatta prosaicità. Ma mentre la foto omogeneizza, l’artista vuole ridare consistenza, singolarità, spicco individuale ai diversi momenti della visione, spezzettandoli, effettuandone come dei prelievi parziali, così come si estraggono dei campioni di tessuto o di terreno per sottoporli a qualche analisi. E così, la totalità di visione viene scomposta, divisa in riquadri, onde poter ridare a ciascuno di essi una qualche consistenza specifica, attraverso una copertura con pigmenti di grande spessore, quasi una cura per il contrario: quanto la foto appiattisce, livella, anonimizza, altrettanto l’intervento pittorico si propone di ridare consistenza, presenza incombente, presa sui sensi, avvalendosi anche di pratiche disgiunte. Ovvero i diversi campioni prelevati vengono sottoposti a trattamenti differenziati, approfittando dei poteri della pittura di dare importanza alle epidermidi, quasi di prelevarle dalla realtà e di trapiantarle nell’opera subendo un minimo scarto nel trasferimento. E’ anche come dare alle immagini una sorta di terza dimensione, un rilievo, una piena evidenza. Forse questo è l’unico modo di interpretare il titolo assegnato all’esposizione, “Historical Materialism”. La storia non c’è, oppure compare solo attraverso ritratti dei grandi rivoluzionari, da Marx a Mao, ma del tutto convenzionali, come avviene nella dominante cultura popolare, quella stessa di cui si è valso pure Warhol per i suoi interventi in contropiede. Ma a riscattare appunto tanta convenzionalità interviene appunto l’altra parte del titolo, il materialismo degli strati di colore, così massiccio, sfacciato, incombente.
Li Songsong, Historical Materialism, a cura di Gianfranco Maraniello, Bologna, MAMbo, fino al 30 agosto.