Nei giorni scorsi si sono tenuti importanti convegni per ricordare due figure dominanti del nostro secondo Novecento, Mattia Moreni e Leoncillo Leonardi. Parto dal secondo dei due, anche se venuto un momento dopo, il 9 e 10 luglio, ottimamente organizzato a Spoleto da una docente dell’Università di Perugia, Stefania Petrillo, e da una nipote dell’artista, Anna Leonardi, senza dubbio più ricco dell’altro, in quanto dalla natia Umbertide Leoncillo si è spostato e ha svolto quasi tutta la sua purtroppo breve carriera a Roma, e dunque attorno alla sua memoria si è stretto il fior fiore della critica dell’Urbe, anche se per ragioni contingenti un trio dominante, Calvesi, Crispolti, Boatto, si sono limitati a inviare testimonianze in assenza, ma c’erano Rubiu, Corà, Mantura, Claudia Terenzi, Fabio Sargentini, e poi via via, a cerchi allargati, Toscano, Bonomi, Tomassoni, Messina, e pure più giovani presenze come Tonelli. Tuttavia, pur nel coro unanime delle lodi, traspariva una punta d’amarezza nel riconoscimento che no, Leoncillo non ce l’ha fatta a diventare un nome di riferimento di prima classe, anche a livello internazionale, al pari del conterraneo Burri o di Fontana. Ancora peggio se l’attenzione si sposta sull’altro grande protagonista a Nord quale fu Mattia Moreni, ricordato nel week precedente in un luogo magnifico ma decentrato e solitario sulle colline del Monferrato, in una residenza di famiglia in cui una delle due figlie dell’artista, Francesca, ha raccolto una impressionante testimonianza delle molte tappe del genitore, ma ha dovuto fare tutto da sé, col solo intervento, se si parla di critici di professione, di Martina Corgnati e dello scrivente. Questa solitudine moreniana è il derivato di un’esistenza nomadica, con degli alti picchi di notorietà e volontarie cadute in assoluta antitesi a quanto richiedono i fasti della notorietà. Eppure, a un’indagine statistica, Moreni risulterebbe il nostro artista più promosso su una ribalta internazionale, o quanto meno parigina, per tutti gli anni Cinquanta, lui emerso da una Torino che era pur sempre il terzo polo della nostra vita culturale, dove aveva fatto a tempo a ricevere l’eredità dell’artista più contrario alla dittatura di Felice Casorati, cioè Luigi Spazzapan, per poi trasmettere quei lieviti al capofila della futura Arte povera, Mario Merz, che comincia proprio come continuatore delle scariche energetiche di Mattia. Inoltre Torino era la sede eletta del fondatore dell’Informale europeo, Michel Tapié, che infatti fu pronto a trasportare Mattia sulle rive della Senna e a farne un astro internazionale, esponendolo assieme a Fautrier, Dubuffet, Pollock, Tobey, i Cobra, su un piede di totale parità con Burri e Fontana. Allora, nella Ville Lumière, il grande Mattia risiedeva addirittura in una vecchia sede del Moulin Rouge, da cui però decise a un tratto di andarsene per ristabilire un contatto diretto e davvero bruciante con i valori della terra, ricercata in Romagna fino alla fine dei suoi giorni.
Presente, con infinita devozione verso questi due grandi protagonisti in entrambe le occasioni, mi sono chiesto, coram populo, perché le loro attuali quotazioni, di critica e anche di mercato, siano alquanto scarse, se confrontate rispetto a quelle dei compagni di via sopra menzionati. Mi pare che la critica, nazionale e internazionale, col famigerato seguito o prolungamento dei “curators”, sia vittima di un pregiudizio paradossalmente anacronistico. Tutti ammetterebbero che i nostri tempi sono caratterizzati dal clima postmoderno, salvo poi ad aprire una querelle nel tentativo di fissarne i connotati, comunque di rottura e contrapposizione col modernismo, direbbe la critica USA, o col Movimento moderno, come si disse in architettura fissando al meglio i tratti delle prime avanguardie storiche. Si sa che proprio quel clima si concentrò nel detto “less is more”, e cioè, “meno fai e meglio è”, da qui una prelazione continua a favore del monocromo, di opere che tendano a uno zero, sia cromatico che gestuale. Per fortuna il postmoderno, per esempio per la bocca di Bob Venturi, architetto dominante di questa attuale temperie, ha capovolto la frase dichiarando che “less is boring”, cioè questa opzione a favore del “meno” è una noia da respingere. Si potrebbe anche aggiungere la massima in romanesco “Come te movi, te furmino”. Ebbene, i nostri due sono vittime di questo dominante, per quanto fuori tempo e luogo, pregiudizio. Leoncillo è stato un esempio di volontà estrema a caricare comunque le opere, a renderle parossistiche, frementi di vitalismo, a cominciare dalla scelta univoca di un materiale per se stesso vitale, organico come la creta-ceramica-terracotta, antimodernista per eccellenza, tale cioè da eliminare da sé la grammatica del diedri, del geometrismo a facce ben squadrate, meglio ottenibile invece col marmo o col bronzo. Una opzione del genere, senza volerne fare qui la ricca storia nell’arte nostrana, è stata altrettanto bene sostenuta proprio da una di quelle esistenze vicine a Leoncillo, ma che ora riescono ad andare più lontano. Mi riferisco alle magnifiche ceramiche di cui è stato esecutore Lucio Fontana sul finire degli anni Trenta, quando sviluppò, per dirla con Crispolti, una magnifica carriera barocca, di cui però gli attuali cultori del “meno” vorrebbero scordarsi, o quasi depennare dal suo profilo per renderlo più degno di confluire nel main stream di un monotono formalismo. Nell’occasione ho dichiarato che darei tutti i noiosi, ripetitivi, stereotipati tagli cui Lucio poi si è dato a favore di una ben assortita selezione di ceramiche barocche, le stesse che poi rendono credibili i tagli quando vengono inflitti dal maestro italo-argentino sulle Nature, aprendo in esse degli oscuri penetrali nei segreti della vita e della materia. Senza però nulla togliere alla forza dei neon, che Fontana sapeva infliggere così bene come laceranti scudisciate nello spazio. Quanto a Burri, non dimentichiamo che nella seconda parte della sua carriera ha lasciato cadere la forse falsa e abusiva maschera informale, del pur esaltante periodo delle tele di sacco e delle combustioni, per approdare al cimitero mortuario dei cellotex, come dire, pane, anzi ostia consacrata per i denti, per gli stomaci asfittici degli appartenenti all’international system, pronti a comunicarsene devotamente, mentre riesce loro assai arduo ingurgitare i frementi grumi leoncilliani.
Lo stesso, e ancora peggio, va ripetuto per l’altro “assentato” d’ufficio dalla nostra scena, Moreni, che certo in ogni momento della sua attività ha inseguito il “più”, un urlo, un diapason di energie, inoltre è incorso in un secondo reato, forse ancor più grave, di cui invece non può essere incolpato Leoncillo, artista di ferrea coerenza nelle sue mosse. Moreni, al contrario, di stagione in stagione ha mutato pelle, come certi insetti, e dunque dopo la fase informale ha preso di mira gli oggetti, naturali o artificlali, dagli alberi di mele alle angurie, in dialogo lontano con i Pop, con Oldenburg, per esempio. E poi ancora è entrato in collusione con i graffitisti statunitensi, con i “writers”, quasi emulo dei bellissimi murali di Basquiat, percorsi pure da scritture tracciate con una corsività volutamente elementare. Tante fasi che hanno disorientato la critica, abituata a immobilizzare la propria preda e a ingerirla in tutta tranquillità. Per l’internazionale della critica è molto meglio avere a che fare con Emilio Vedova, che in definitiva ha sempre continuato il suo gioco delle non so quante carte, movimentandole agli occhi del pubblico, e inoltre non dimentichiamo che alle sue spalle c’è sempre stata la nobile Venezia, mentre Moreni si è ficcato in località marginali e fuori mano. Dunque, in conclusione, inutile incolpare fattori esterni, il mercato, le strutture espositive sia pubbliche che private. La colpa maggiore della non adeguata valutazione di questi nostri due grandi sta nel manico, nella mentalità “minimalista” dell’intero attuale sistema dell’arte, nel suo stomaco abituato solo a una dieta per anoressici, fatta di brodini e di smunte bistecchine.