Arte

Le ragnatele di Tomàs Saraceno

In passato ho fatto ricorso più volte a visite virtuali di mostre, indotto da ragioni di risparmio, di tempo e di spese per viaggi, e certo mi capiterà di farlo ancora. Ma in questo momento una simile modalità di visita è resa necessaria dalla chiusura dei luoghi espositivi. Diversamente, lo giuro, mi sarei recato a Firenze, Palazzo Strozzi, per la mostra dedicata a Tomàs Saraceno (1973), argentino di nascita ma poi trasferitosi in Germania e con soggiorni anche presso di noi. In lui si deve vedere l’uno dei due moschettieri che rendono grande l’America del Sud, a sfida della tradizionale supremazia che si usa attribuire a quella del Nord. L’altro campione è il brasiliano Ernesto Neto, più anziano di lui di neanche un decennio. I due si dividono il compito di sfidare la natura, lussureggiante nei rispettivi Paesi, facendole concorrenza grazie ai nostri ritrovati tecnologici. Neto ricrea, con l’aiuto di materiali plastici, e sfruttando al massimo il principio della malleabilità, la vegetazione, l’intrico di piante come di foreste amazzoniche, dalle foglie larghe, quasi smaltate, da cui pendono frutti gonfi, panciuti, non senza che per questo peso aggiunto le superfici rischino di squarciarsi, Saraceno invece sviluppa come delle ragnatele gigantesche, che quasi sembrano materializzare il trascorrere impalpabile delle onde elettromagnetiche, o, per stare nel concreto, sviluppano in alto, nella volta aerea, qualcosa di simile al dripping di Pollock. Personalmente ho già avuto modo di ammirare questi suoi procedimenti quando aveva riempito di sé l’ampia cavità di cui dispone il MACRO di Roma, e anche quando aveva sorvolato con uno stuolo di corpi aerei l’ultima Biennale di Venezia, mentre ho perso, confesso, le sue installazioni al milanese Hangar della Bicocca nel 2012, dove aveva sviluppato alla perfezione un aspetto intrinseco al suo modo di essere, riempiendo l’enorme spazio come con delle bolle di sapone di ampiezza smisurata, a contrasto con uno spessore minimale, però abbastanza tenace tanto da sopportare che su di esso si potessero posare degli esseri umani, simili a disperati naufraghi di un disastro pur sempre avvenuto in cielo, per esempio per lo squarciarsi di una mongolfiera o di qualche altro congegno volante. Nella mostra fiorentina mi sembra che Saraceno sfrutti un’altra possibilità intrinseca al suo repertorio, pur sempre nel segno del gonfiore, ampio, espanso, ma di limitato spessore. A guardare le sue mostruose escrescenze, che non stanno nelle stanze del museo ma occupano gli spazi aperti del cortile, vengono in mente i soffioni, quelle efflorescenze che sembrano proprio tramate di vuoto, tanto è vero che ci prendiamo il diletto alquanto crudele di soffiarci sopra, di disperderle nell’atmosfera. Naturalmente un simile gesto non è possibile compierlo davvero a danno di queste mostruose sfere, o almeno per farlo ci vorrebbe un gigante smisurato, ma la sensazione è proprio quella, di involucri riempiti di vuoto, fino quasi a un punto di esplosione. E nello stesso tempo se ne evidenzia l’immaterialità, un carattere di trasparenza, o di riflessione di quanto sta fuori di loro. Insomma, i due alfieri del Sud America giocano carte opposte, l’uno punta sul tutto pieno, l’altro sul tutto vuoto, uniti però dal comune rivolgersi alle attuali risorse dei materiali tecnologici.

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