Arte

Le ingegnose acrobazie di Roberto Barni

Oggi stesso si chiude alla Malborough di Madrid una personale dell’artista pistoiese-fiorentino Roberto Barni (1939) dal titolo “Derecho a revès” (“Dritto su rovescio”?). Se questa fosse una sede cartacea ufficiale, non mi sarebbe lecito parlarne perché evidentemente mancherebbe a qualsiasi lettore la possibilità di andare a vedere di persona, ma siccome si tratta di una sede del tutto privata e virtuale, posso ben affidarle un commento a posteriori, per onorare un caro e stimato amico, fin dagli anni Sessanta in cui, assieme ai compagni Umberto Buscioni e Gianni Ruffi, ha costituito la Scuola di Pistoia, eccellente contributo al panorama della Pop Art in Italia, anche se i tre hanno sempre dovuto scontare il peccato di vivere in periferia e di venire talvolta trascurati. Tra loro, Ruffi è stato il più fedele alle sue invenzioni plastiche, a gara con Pino Pascali e in anticipo su Maurizio Cattelan. Infatti esse hanno sempre giocato sull’operazione di tradurre in forme concrete, tridimensionali, certe frasi metaforiche, come “La luna nel pozzo”, o “La via lattea”, quest’ultima, per esempio, affidata a una scia di contenitori tetrapak con dentro il liquido casalingo. Buscioni è rimasto fedele a un suo stile che è sempre stato di scorticare le immagini, come gli indiani scotennavano le loro vittime, anche se con gli anni questi accurati prelievi, di epidermidi felicemente policrome, hanno abbandonato una chiassosa attualità “popolare” andando a saccheggiare le risorse museali, cioè immagini sacre e preziose. Qualcosa di simile ha fatto anche Barni, passando quasi a militare nel fronte degli Anacronisti e andando a costituire immagini nobili, di gusto “gotico” o manierista, lunghe, affilate, dinoccolate, con teschietti aguzzi, appuntiti. Ma forse l’aspetto più efficace di questo suo mutare di pelle sta nell’essere passato dalle due alle tre dimensioni, nell’aver affidato cioè queste icone stilizzate alla scultura, e in una delle sue versioni più tradizionali, il bronzo, magari ulteriormente nobilitato da patine tali da conferire alle statuette un’aura magica. In sostanza, Barni si è procurato una specie di regolo, di componente primaria, con cui procedere poi a costruzioni ardite, degne di raffinati esercizi acrobatici, come in un circo i cui adepti ci appaiono pronti a ogni equilibrismo. Magari c’è in questo un qualche riferimento al Circo di Calder, o alla magrezza estenuata delle stele erette da Giacometti. Ma appartengono del tutto a Barni l’agilità, l’estro con cui questi suoi gnomi in senso contrario, affetti cioè da una estenuazione straordinaria, movimentano lo spazio, montando in groppa gli uni sugli altri, come a costruire castelli di carte, e sfidando le leggi della statica. Basterebbe poco per vedere quelle tenui costruzioni afflosciarsi di colpo, tanta è la sfida alle buone leggi della stabilità. Infatti non di rado alcune di quelle icone filiformi si mettono di traverso, bloccando la crescita delle altre secondo una verticalità regolare, e dunque posta sotto la protezione delle leggi di gravità. O addirittura in qualche caso una di quelle creature, più spregiudicata di altre, entra nel coro ma a testa in giù. Oppure si dischiude un bel gioco alterno tra gambe divaricate e altre che invece si stringono su un unico asse, col che l’intera stringa assume l’andamento di una specie di onda vibrante, a fasi alterne, di anse e di restringimenti. Viene quasi la voglia di chiedere all’autore il permesso di partecipare a quel gioco, di variare cioè le posture di quella folla di figurette, non fosse per il peso delle fusioni in bronzo che in genere si assestano attorno al metro di altezza. Ma certo almeno a un livello virtuale a un tale gioco, di una specie di “ questo l’ho fatto io”, si può partecipare, anche da lontano, come sto facendo io stesso in questo momento.

Standard