Il Palazzo Strozzi di Firenze dedica una mostra monografica utile e ben condotta all’artista russa Natalia Gonciarova (1881-1962). Forse valeva la pena affiancarle anche una rassegna dell’immancabile compagno nella vita e nell’arte, Michail Larionov, con cui ha costituito una delle coppie più celebri del Novecento, per casi affini si pensi si pensi a Werefkin-Van Dongen, Frida Kahlo-Diego Rivera. Antonietta Raphaël-Mario Mafai, Accardi-Sanfilippo, magari arrivando a Mario e Marisa Merz. Il confronto permetterebbe di stabilire chi, tra i due, pur in una evidente concomitanza di intenti, tirasse di volta in volta la volata, e la partita potrebbe risolversi a favore della componente femminile di questi duetti, a conferma della causa femminista per cui la Gonciarova si è sempre battuta, del resto alla pari delle compagne che di volta in volta si sono venute a trovare nella sua stessa posizione. Il ritratto che esce della Gonciarova è di un’artista generosa, ricca di soluzioni, ma anche condannata a un certo ibridismo, e spesso ad arrivare, assieme al compagno inseparabile, in un secondo momento. Certo è che l’intera vicenda delle avanguardie russe del primo Novecento, se si togliessero gli stimoli provenienti da lei, risulterebbe mutilata. Forse i dipinti più coraggiosi e sicuri sono i primi nel suo curriculum, realizzati attorno al 1907, dove è evidente la dipendenza dall’Espressionismo dei Tedeschi della Brücke, ma con un più di spirito sintetico, con la determinazione a rendere i volti delle figure, per lo più persone addette ai lavori agricoli, con schemi triangolari, ossificati, così aprendo la strada agli apporti successivi di Malevich, quando anche lui ci dava degli ibridi dove un profilo “astratto”, secondo il significato etimologico della parola, veniva però decisamente rinforzato con l’aggiunta di uno scheletro meccanomorfo, di derivazione cubista. Ma tornando alla nostra Gonciarova, il Cubismo forse parve a lei, come al suo compagno, una soluzione troppo ferma, troppo statica, così optò piuttosto per una vicinanza coi nostri Futuristi, ma era pure spinta dall’orgoglio nazionalista di non ammettere una derivazione dall’Italia. Si sa bene come Marinetti, in una sua puntata russa, venisse osteggiato, sfidato. E così la coppia, ancora in testa, appena iniziato il secondo decennio, a dettare i tempi del patrio sperimentalismo, tentò di varare una soluzione in proprio, il “Raggismo”, come sfilacciare il precedente impianto espressionista, fargli emanare appunto dei raggi, dei razzi, con le inevitabili contraddizioni, presenti anche presso i nostri Futuristi, tra la volontà di ipotecare un futuro “macchinista”, ma di ritrovarlo per il momento in congegni alquanto elementari, come succede nel “Ciclista” del 1913. Anche qui comunque si manifesta il carattere ibrido da cui sempre è stata animata la ricerca della Nostra, segnalato dall’inserimento di scritte monumentali, e di motivi, le zolle del terreno, che già annunciano un carattere decorativo. Del resto la coppia, sempre strettamente legata, dopo i primi suggerimenti offerti allo sviluppo delle avanguardie patrie, “scarta” decisamente, quando in esse compare la lezione astratto-geometrica di Tatlin e Lissitzkij e Rodcenko, anche perché i nostri due non accettano le relative implicazioni ideologiche, e dunque sono tra i primi a scegliere l’Occidente, in direzione di quella che allora era la meta privilegiata di tutti gli emigranti, Parigi. In questa emigrazione verso Ovest erano stati preceduti da un connazionale, più anziano di loro di quasi una generazione, ma capace di aprire una strada più profonda, Wassili Kandinsky, poi non insensibile al fascino della Rivoluzione in atto, ma in seguito anche lui definitivamente deciso a optare, al pari di altri, per la Germania e la Francia, tutti spaventati, intimoriti dal cambio di clima che nella Russia ormai radicalmente sovietizzata veniva minacciato, da Lenin, diciamo le cose come stanno, anche prima che gli subentrasse l’ancor più deleterio Stalin. A Parigi, la nostra Gonciarova continuò a dare prova del suo generoso e fertile eclettismo, tirando fuori dalla memoria storica del suo Paese le profonde radici nell’arte bizantina, manifestatesi in tanti aspetti del folclore, di icone tra il fastoso e il popolare, Attinse abbondantemente a questo tesoro avito entrando in congiunzione col clima degli Arts Déco, e trovando sponda nei balletti che del resto proprio un connazionale, Diaghilev, andava organizzando, reclutando nelle sue file alcuni dei protagonisti delle precedenti stagioni sperimentali, come lo stesso Picasso. Possiamo dire che la nostra Gonciarova poteva aspettare l’arrivo di questi colleghi quasi “pentiti”, trovandosi già ben insediata nell’esercizio di soluzioni decorative-ornamentali, peraltro inframmezzate da ritorni a trattamenti più plastici e figurativamente più in carne. Il confondere, il mescolare le carte di un mazzo ricco di risorse non l’ha mai spaventata, e le ha anche concesso di svolgere una lunga carriera, anche se con esiti via via più compromissori, sempre nel nome di eleganti ibridazioni.
Natalia Gonciarova, a cura di Matthew Gale e Natalia Sidlina, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 12 gennaio. Cat. Marsilio.