Il “Robinson” di sabato scorso, 7 agosto, era in gran parte dedicato a Federico Zeri, che accoglieva il lettore dalla prima pagina con sguardo altezzoso-malizioso-insinuante, Io non sono mai stato favorevole alla sua figura, pur non facendogli mancare ol dovuto rispetto. Egli aveva iniziato prendendosela col suo Maestro, Roberto Longhi, accusandolo di non aver provveduto a dargli una cattedra universitaria, ma era accusa fuori dalle righe, dato che allora esisteva la cattedra unica nei vari istituto d’arte universitari, del barone factotum di storia dell’arte medievale e moderna. Allo stesso modo avrebbero potuto lamentarsi altri allievi del Longhi, come i miei concittadini Arcangeli e Volpe, che dovettero attendere a lungo prima di andare in cattedra. Zeri non ebbe la pazienza di aspettare il suo turno, scocciato anche dal prevalere, negli anni Cinquanta e oltre, della coppia Argan-Brandi, quindi emigrò negli USA, alla corte di Paul Getty, che credo abbia aiutato a far uscire dal nostro Paese fior di capolavori. Ma poi, vittima di un carattere appunto altezzoso, pieno di sé, e di conseguenza anche litigioso, ci fu la rottura con Getty e il ritorno in patria, dove da quel momento Zeri divenne l’implacabile difensore dei nostri beni artistici, vietato esportarli. Nello stesso tempo egli corresse la sua posizione di bassa stima, divenendo il primo intellettuale ad apparire sugli schermi televisivi, dominandoli col suo caftano, ottenendo un vasto consenso popolare, e da quel soglio mise in corsa Vittorio Sgarbi, cui ha insegnato il mestiere di apparire in pubblico, prima di rompere con lui, così come il suo pupillo avrebbe rotto in sequenza con tutti coloro con cui ha compiuto qualche tratto di strada. Il pulpito della notorietà televisiva concesse a Zeri di comparire nella grande stampa, reclutato dal terzo quotidiano nostrano, “La Stampa” appunto, dove io, incredibile a dirsi, gli fui accanto per qualche tempo nel pubblicare elzeviri di terza pagina. I miei modestamente si occupavano d’arte, lui invece passeggiava da dominatore della scena pubblica, anticipando il ruolo che nei tardi anni della senilità ora viene tenuto da Scalfari sulla “Repubblica”. Colpito da questi vari titoli di eccellenza, l’abile rettore di Bologna, Fabio Roversi Monaco, volle catturarlo al suo carro, stabilendo con lui un vitalizio per cui, in cambio di una pensione annuale, Zeri, alla sua morte, si impegnava a dare in eredità all’Alma Mater la sua Villa di Mentana, con tutti i libri ivi contenuti e la fototeca. Fortuna per noi, e disgrazia per lui, volle che egli scomparisse poco dopo aver firmato questo impegno,. Però, correttamente, Roversi Monaco non pensava affatto di trasferire questo patrimonio a Bologna, Poco dopo dovette cedere il suo scranno rettorale a un suo seguace, Pier Ugo Calzolari, professore di ingegneria elettronica, che fu facile convincere che sia i libri sia la fototeca di Mentana fossero una specie di ottava meraviglia del mondo, da portare a Bologna e da nobilitre con una fastosa Fondazione. In quei tempi io ero direttore del Dipartimento felsineo di arti visive, interessato a un trasferimento nell’ex-convento di S. Cristina, di proprietà del Comune, dove però, nonostante il nostro ingente numero di docenti e allievi, ci dovemmo accontentare dei piani inferiori, sovrastati, per importanza, per decoro, dalla maestosa Fondazione Zeri, istituita nel nome di chi non si è è mai occupato di arte bolognese, mentre presso di noi nulla è stato fatto in ricordo di Arcangeli e Volpe, veri profondi studiosi della nostra arte. I libri di Zeri, che la mostra biblioteca già aveva per gran parte, furono magnificamente alloggiati sopra le nostre teste, mentre si pensò addirittura di mettere in rete le 6.000 foto, che sono quelle di un senza dubbio abile connoissuer, cui galleristi e collezionisti privati mandavano foto delle loro opere sperando di ottenere una consolante attribuzione. Credo che ben pochi siano gli accessi a questo pseudo-tesoro scientifico messo in rete. Del resto, che Zeri fosse di manica larga nell’attribuzionismo, lo dice l’alto numero di nature morte caravaggesche da lui riconosciute, assieme a Mina Gregori. Che queste fossero in eccesso, non lo dico io, che potrei essere considerato un inesperto, bensì un ramo del longhismo, gestito soprattutto dalla Barocchi, avversa per la pelle della Gregori, come succede tante volte nelle famiglie di “parenti serpenti”. Ora i miei successori sono schiacciati da quella inopportuna occupazione superiore, del cuculo annidato tra di noi.