Domenica scorsa, in vista della tavola rotonda su Bassani, svoltasi regolarmente venerdì scorso 18 novembre e intesa a misurare se noi, reduci del Gruppo 63, Fausto Curi e io, mantenevamo le riserve di un tempo verso l’autore dei “Finzi Contini”, o avevamo modificato il nostro giudizio, avevo steso un preventivo su quanto sarei andato a dire. Ora, in sede di consuntivo ex-post (uno molto corretto ne è dato pure dal padrone di casa dell’intero convegno, Gianni Venturi) non posso che confermare. Curi e io, con quella solidarietà che, al di là di occasionali scaramucce spicciole, sempre ritroviamo nei momenti collettivi, abbiamo ripetuto le nostre convinzioni di allora, abbiamo sottolineato che il nostro movimento veniva da lontano, era iniziato già dal ’56 della fondazione del “Verri” anceschiano, rispetto a cui la nascita del Gruppo nell’ottobre ’63 era stata solo la tappa finale. E che allora non avevamo affatto voluto essere offensivi nei confronti di Bassani, come anche di altri obiettivi dei nostri attacchi, quali Cassola, Pratolini, Pasolini. L’accusa che fossero delle Liala di quei tempi fu solo una infelice battuta polemica, noi ci eravamo limitati a dichiarare che tutta quella produzione era “out”, scavalcata dai tempi, nulla di più e di meno. Naturalmente ci sono stati in quel pomeriggio i difensori dei meriti di Bassani, come Giulio Ferroni e Alberto Bertoni, Forse l’unico elemento di novità, non previsto nel mio annuncio a priori, è venuto proprio da Bertoni, che ha portato l’attenzione sull’ultima prova narrativa del Ferrarese, “L’airone”, uscito nel ’68. Io ho dovuto confessare che in un rapido ripasso dell’intero corpus bassaniano, proprio per prepararmi al dibattito, avevo trascurato una rilettura di quell’ultimo prodotto, ma che lo avrei fatto senza dubbio subito dopo, come infatti è stato, il che mi porta a dare ragione a Bertoni. “L’airone” è il miglior prodotto dell’officina Bassani, per varie ragioni, intanto perché si spinge più avanti nel tempo, si lascia indietro il triste capitolo delle persecuzioni razziali, uno dei tanti motivi cui il nostro scrittore è intervenuto a posteriori, ma dando l’impressione di essere spinto da una certa “political correctness”, andando a sfondare porte già abbondantemente spalancate. Qui il motivo ebraico entra in punta di piedi, e attraverso una patita testimonianza di sapore psicologico, quando il protagonista, Edgardo Limentani, contempla allo specchio il suo membro invecchiato e avvizzito, su cui domina ancor più vistoso il segno della rituale circoncisione subita. Per il resto, l’autore viaggia basso, affidandosi, certo con notevole abilità, al discorso indiretto libero, di un protagonista che infilza una catena di colpi avversi subiti dalla sorte, e anche dal mutare dei tempi. Non c’è più nulla della sicumera medio- o alto-borghese di passate stagioni, ora il protagonista è alle prese con tanti guai, i mezzadri, ringalluzziti dai successi del PCI, nel dopoguerra, gli disputano il controllo su una piccola proprietà agricola residua. La moglie Nives disprezza la debolezza del consorte e medita di lasciarlo. Lui si rifugia nel piacere della caccia, ma tutto gli va di traverso, perde tempo nel giungere all’appuntamento con chi lo dovrebbe portare nella botte da cui sparare agli uccelli di passo. L’incontro con un oste perspicace e intraprendente gli pone tanti ostacoli, e anche tentazioni, infatti l’astuto villano cerca di gettarlo nelle braccia di una prostituta del luogo. C’è pure il tentativo di ristabilire buoni rapporti con un cugino, e magari di riallacciare una tresca con la cognata. Quanto all’airone, certo è il motivo dominante della caccia in botte, destinato a finire ucciso con lunga agonia, e a divenire un povero, triste trofeo pronto per un’imbalsamazione da cui Limentani si ritrae con orrore. Tutto insomma crolla attorno a lui, tanto che passo passo si sente spinto al suicidio, con uno di quegli stessi fucili con cui ha tentato invano di sottrarsi al “tedium vitae” tuffandosi in una sana partita di caccia, ma anche questa portatrice di dolore e sconfitte.
E’ un Bassani che entra in disputa con tanti concorrenti più forti di lui, con Hemingway in primo luogo, rispetto a cui potremmo anche dire che vince ai punti, se paragoniamo “L’airone” a una delle opere più deboli dello statunitense, “Di là dal fiume e tra gli alberi”. Ma non dimentichiamo che il monologo interiore o il discorso indiretto libero aveva trionfato nel capolavoro hemingwayano “Il vecchio e il mare”, e del resto il nordamericano aveva alle sue spalle quei capolavori enormi che sono “Addio alle armi” e soprattutto “ Per chi suona la campana”, tanto da farlo iscrivere da me con ruolo primario nell’elenco dei “Capitani coraggiosi”, mio saggio Mursia dell’anno scorso. Purtroppo al confronto con questi capolavori l’opera di Bassani cede, perde colpi, seppure con passo in definitiva onesto e coraggioso. Forse egli grava il suo Limebntani di troppe sconfitte, senza mai giungere a chiudere, a portare il dramma a un climax, a un risoluto esito catastrofico, L’airone? Ma in definitiva la sua morte avviene fuori scena, e poi l’esecuzione di quel nobile e innocente animale si colloca troppo presto nella trama. La stessa irresolutezza accompagna il protagonista in tutte le vicende affrontate. Avere il coraggio di ritrovare gli ardori giovanili tuffandosi in un amore mercenario, o di riallacciare l’esile filo di un possibile approccio con la cognata, o di rompere definitivamente con la moglie Ines? E poi, e in chiusura, sdraiato nella vasca da bagno, spararsi davvero, o invece rinviare, quasi affidandosi alla via d’uscita dei punti di sospensione? Purtroppo, nonostante la validità globale di una performance che, si può concordare con Bertoni, resta la sua migliore, si confermano i limiti di Bassani, autore dai mezzi toni, dalla mancanza di scelte esplicite, costretto a temporeggiare, pur sempre prigioniero di un passato da cui non riesce a saltar fuori.