Arte

La sommessa rivoluzione di Giacomo Ceruti

I due fattori del lock down prima, e delle ferie estive poi, rendono più che mai accettabile una mia recensione da lontano, che pure eserciterebbe su di me lo stimolo di salire al primo piano del ferrarese Palazzo dei Diamanti, cosa da me mai compiuta, mentre ho visitato un’infinità di volte le sale al pianterreno, per visitare e recensire le mostre apprestate sotto la sapiente regia di Farina prima e di Buzzoni poi. Sarebbe il luogo di una Galleria nazionale d’arte, in cui al momento si possono contemplare due opere di Giacomo Ceruti (1698-1767), lo dico subito, un artista di eccezionale importanza, sia per il nostro Paese sia per l’Europa tutta. Potrebbe essere colui che più di ogni altro ha preso congedo dalle maglie del barocco, barocchetto, rococò, accettando in pieno la svolta dell’”andare in chiaro”. Questa, di cui possono essere accreditati il pioniere Luca Giordano, e soprattutto il magno Giambattista Tiepolo, aveva già provveduto a rendere sopportabili gli ultimi attorcimenti della stagione barocca. Ma il Nostro fa ben di più, fa scendere una illuminazione sicura e ben distribuita (vogliamo fare pure un riferimento all’Illuminismo?) su una tematica che oltretutto ha il pregio di disprezzare i nobili e i potenti della terra, insomma quei due Stati del privilegio che al termine di quel secolo verranno rovesciati dal Terzo Stato, dalla borghesia, ma lui, il Ceruti, d’un balzo raggiunge già il Quarto Stato degli ultimi della terra, quali sono i Portaroli, i miseri garzoni dei due dipinti, oberati sotto il peso di enormi ceste, quasi ad anticipare il penoso destino attuale dei portatori di cibo a domicilio, o degli addetti alla sfilata di cartelloni pubblicitari. Si aggiunga alla virtù di una illuminazione piena quella della dimensione. In fondo, l’universo dei miseri si era già affacciato varie volte nell’arte europea, ma, come nel caso del Caravaggio e discepoli, immerso in fosche tenebre, oppure tracciato in piccole dimensioni, come coi Bamboccianti, quasi per farsi perdonare l’offesa inflitta ai canoni del decoro e della gerarchia delle classi. Se guardiamo attorno, non c’è nessun coetaneo del Pitocchetto che al pari di lui sappia coniugare queste due virtù. C’è chiarismo, senza dubbio, nella commedia sociale di Hogarth, ma anche questa ci viene servita in piccolo, come del resto giustifica la prevalente vena di illustratore e di grafico propria dell’artista inglese. Del resto, le sue celebri “conversation pieces” sono quasi delle case di bambole, ben riprese, nella Serenissima, da Pietro Longhi. Un chiarismo anticipatore di future imprese realiste si ha pure con un figlio di Giambattista, Gian Domenico, che non si loderà mai abbastanza per il coraggio con cui prende le distanze dal genitore, con quelle figure che certo non riducono le proporzioni, ma se ne stanno ben dritte davanti a noi, e osano perfino voltarci le spalle, forse proprio per negarsi al protagonismo generoso e retorico delle figure paterne. Insomma, sia nelle nostre regioni nordiche, sia, varcate le Alpi, in Francia e in Inghilterra non si scorge nessun protagonista che possa minacciare o strappare al nostro artista il primato da lui conseguito per questi vari aspetti.
Giacomo Ceruti, I Portaroli, a cura di Marcello Toffanello, Ferrara, Galleria nazionale d’arte, fino al 4 ottobre.

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