Ricevo l’ultimo romanzo di Paolo Malaguti, Piero fa la Merica, e devo essere grato o all’autore o all’ufficio stampa (Einaudi) perché non ero stato molto favorevole alle sue uscite precedenti, tra cui Se l’acqua ride, perché mi erano sembrate limitarsi a un piccolo cabotaggio nel mestiere di pescatore, con poca autonomia rispetto a un nonno dispotico e a un corto raggio per vivere una esistenza in proprio. Qui invece l’autore, semmai, rischia un difetto opposto, ovvero questo romanzo è costruito come a segmenti diversi che hanno tutti l’aria di avere avuto un qualche illustre modello da imitare, d’altra parte così l’esito globale è sicuramente mosso e gradevole, nonostante i suoi dislivelli, e i rattoppi che appaiono, anche se diligentemente simulati sotto un intento di continuità. La prima tappa è il solito quadro di estrema indigenza, di povera gente all’ombra del Montello, che non ha neppure il permesso, da guardiani odiosi, di raccogliere i rami del bosco. Una assoluta indigenza, all’ombra di una pur doviziosa Villa Pisani, che costringe i membri di questo misero nido a emigrare. Non so se Malaguti conosca il capolavoro di Edmondo De Amicis, Sull’oceano, ben più profondo rispetto alle novelle sentimentali di Cuore, che è un’analisi coscienziosa di giornalista che si imbarca in uno di quei bastimenti che portano i nostri poveri migranti verso la Merica, per dirla con le loro parole di incerto italiano misto alle cadenze dialettali, che certo sono un fascino di cui il nostro autore sa approfittare molto bene. E’ questa la seconda tappa, colma dei ben prevedibili orrori, del viaggiare in ultima classe, in totale promiscuità di sessi , con poco cibo, poca aria e così via, roba da farci ricordare tutto l’attuale capitolo dei migranti. C’è una novità, in quanto la Merica qui in oggetto non sono gli Stati Uniti, bensì il Brasile. E beninteso quando i nostri riescono a sbarcare, li attende la mala copia di una Ellis Island trasportata a Sud, ma con le stesse indagini, e la stesa paura di essere rimandati a casa. Poi, il duro lavoro nelle piantagioni per farsi una capanna, per procurarsi un minimo di sostentamento, Una novità è che l’eroe della vicenda, Piero Gevoro, non ha fatto il viaggio da solo, ma col padre e col fratello minore Tonin. Come se i guai della vita quotidiana non bastassero, ci sono anche le incursioni degli indigenti, al punto che i nostri coloni, uniti in una solidarietà di gruppo, decidono di svolgere una spedizione punitiva nei loro confronti. Scatta così un nuovo segmento, in cui Malaguti si ispira a quanto l’epica del western ci ha mostrato essere avvenuto. Davvero, quando i coloni in silenzio hanno circondato le capanne dove vivevano i nativi procedendo a un loro massacro sistematico, ci pare un déja vu. Lo abbiamo già visto in qualche film, per esempio in Passaggio a Nord Ovest. Accanto ai guai della vita pubblica ci sono anche quelli familiari. Il padre di Piero, rimasto vedovo, gli ruba la donna del cuore sposandola, il che fa sentire il figlio tradito, come fosse ripudiato dal genitore, e dunque, ennesima tappa, se ne va a cercare fortuna altrove. A questo punto l’autore si ricorda dell’epopea dei cercatori d’oro, si ispira cioè a Jack London. Quasi con colpo di bacchetta magica Piero trova delle pepite grosse come sassi, si arricchisce a dismisura, tanto da poter beneficare in incognito i parenti rimasti a faticare in Merica. Lui si può permettere di ritornare a casa, alle pendici del Montello, dando ordine di distruggere Villa Pisani, la casa dei “paron”, quella che, da bambino, era stata al centro delle sue attrazioni e delle sue paure.
Paolo Malaguti, Piero fa la Merica, Einaudi, pp. 193, euro 18,50.