Massimo De Carlo oggi è forse il terzo grande tra le gallerie d’arte milanesi, assieme alla Fondazione Marconi e a Lia Rumma. Ma per rafforzare questo suo ruolo ha compreso che doveva abbandonare il coraggioso fortilizio che aveva occupato in zona Lambrate, nella speranza di trascinarsi dietro altre gallerie e di costituirvi un fitto polo milanese. Visto che questo non è avvenuto, ora ha invertito la rotta ed è andato a occupare un prestigioso spazio nel pieno centro, un’ala del Palazzo Belgioioso, accanto al mitico ristorante Boeucc e all’ancor più mitica residenza di Alessandro Manzoni. Per celebrare adeguatamente questo nuovo inizio De Carlo ha chiamato Luigi Ontani, un artista che ora va decisamente per la maggiore, e che così si può vantare della distanza da lui superata in circa mezzo secolo, breve in termini spaziali ma enorme quanto a prestigio. Infatti aveva esordito nel 1970 ad appena un centinaio di metri di distanza, nel Centro S. Fedele gestito dai gesuiti, con la sapiente regia di Padre Eugenio Bruno, purtroppo scomparso qualche tempo fa. Ed era toccato proprio a me tenere a battesimo l’artista, nato a poca distanza da Bologna, in una sua prima audace fuoriuscita, dove già si manifestavano alcuni degli aspetti che poi ne avrebbero retto tutta la carriera. Questi, allora, si potevano stringere nella formula del “povero ma bello”, dove il primo termine stava a sancire una accettazione della svolta sessantottesca, ben espressa dall’Arte povera. E cioè, la si smetta di fare ricorso a materiali e tecniche delle belle arti, ma si adottino materiali di recupero, magari provenienti dalla strada. Il “povero” però, nell’esercizio di Ontani, era subito chiamato a fregiarsi di un appellativo opposto, di un “bello” ritrovato dall’interno stesso di quella poetica, così da costituirne un capovolgimento totale, un ribaltone. Luigi, con acuta intelligenza, si era rivolto all’utilizzo di materiali del tutto cheap, ai limiti col trash, quali i cartoni plissettati e le imbottiture di gommapiuma, con i loro terribili colori rosa e azzurri, che a quei tempi si usavano, ma giusto per imballare le spedizioni. Eppure Luigi ne aveva inteso tutto il potenziale “ricco”, bastava ritagliarne trance, spessori, frammenti, con le forbici sapienti di uno stilista di lusso, ed ecco operato il miracolo, gli oggetti risultanti acquistavano nobiltà, fascino, seppure volutamente mantenuti in bilico col kitsch, sospesi tra il buono e il cattivo gusto, in gara reciproca. Un altro dei mezzi “poveri”, sessantotteschi che l’artista fu pronto ad assumere stava nel ricorso alla foto, però anch’essa rivolta a celebrare un rovesciamento, spostandosi da una regjstrazione del “qui e ora” verso un viaggio a ritroso nel tempo, permettendo al protagonista di farsi fotografare calato nei panni dei personaggi di dipinti storici, o di appartenenti al mondo esotico. Era insomma una sistematica coltivazione dell’ alibi, dell’essere altrove. Nel corso degli anni doveva avvenire quasi obbligatoriamente che il povero delle origini fosse sostituito da un materiale nobile e ricco come la ceramica, nelle sue forme più sofisticate, abbellite da un ricorso al colore. E anche il narcisismo che da sempre è stata una molla ispiratrice del nostro artista, ma in fuga da se stesso, si è compiaciuto di giochi più complessi, pur senza mai rinnegare una prima filiazione da quanto nasceva spontaneamente dal suo stesso cognome, portatore di quell’ontano che nella lingua aristocratica del latino diviene un “alnus”, subito congiunto, come è detto nel titolo di una di queste favolose ceramiche, a un inevitabile ”Alieno”. E c’è pure la confessione del “Narcis” di fondo che si manifesta in ciascuna di queste apparizioni, pronto a moltiplicarsi con effetto di “eco”, come viene subito specificato. Inoltre la metamorfosi in pianta si accompagna sempre e di nuovo alla fuga, all’evasione, come indica un altri titolo, “PalmAltrove”. E beninteso non manca un omaggio al nume fondatore del luogo in cui le opere vengono ospitate, ecco dunque un medaglione volto a celebrare “Albericus Belgioiosiae” con l’aggiunta di un “Auroborus”, con allusione all’effetto di continuo “ouroboros” che presiede a tutte queste sintesi, opere che si acciambellano su se stesse, come sacri pitoni in letargo, dove le lussureggianti screziature della ceramica valgono a rafforzare gli splendori delle pelli, pronte a snodarsi per mettere in evidenza la maculatura, la policromia delle superfici. Magnifici pendagli, addobbi, stemmi nobiliari per confermare la sacralità del luogo. Ma non viene mai meno del tutto un utile ricordo delle occasioni cheap, kitsch, quotidiane da cui tutte quelle superfetazioni trovano la loro nascita.
Luigi Ontani, Albericus Belgioiosiae Auroborus, Milano, Galleria Massimo De Carlo, fino al 16 marzo.