Arte

La grande sintesi di John Armleder

Il Museo MADre di Napoli dedica una importante mostra a John Armleder (1948), uno dei migliori rappresentanti nel nostro Occidente di una tendenza che, da buon fenomenologo degli stili, mi sono provato a distinguere con una formula, ricorrendo addirittura al massimo, e scomodo, Hegel, e parlando di una fase di sintesi subentrante ai due classici momenti anteriori, della tesi e della antintesi. Sempre per valerci di categorie del genere, la tesi la ritrovo nel clima del ’68, con la sua condanna della pittura e il proclama, espresso in modo eccellente da Joseph Kosuth, che da quel momento fosse lecito solo valersi di foto, scrittura e cose stesse riprese in ready-made. Ma poi ci fu l’antitesi, ovvero il radicale capovolgimento di quei dogmi, col clima della citazione, in particolare siglato da me con la formula, anch’essa di estrazione filosofica, della “ripetizione differente”, salutata da noi dalle baruffe tra i miei Nuovi-nuovi, gli Anacronisti, i Transavanguardisti. Poi, alla metà degli ’80, anche quel ritorno al passato apparve superato, ci fu semmai un ritorno a uno spirito avanguardista, ma ricercato, con passo indietro, nella Pop e nella Op, però non riprese pari pari, se no, che sintesi sarebbe stata?, ma nobilitate da qualche pizzico di aura magica, di cromatismo, in omaggio alla appena superata stagione citazionista, ma con “citazioni” contenute, diciamo anche contegnose. Io stesso, sempre pronto a cogliere il mutare dei venti, feci a ridosso di quel mutamento epocale una mostra a Rimini convocandovi tutti gli esponenti nostrani di questi rivolgimento della frittata (“Ordine e disordine”), ma plaudendo in particolare a una mostra visitata nell’86 presso la Galleria Sonnabend a New York che esibiva lo stato maggiore di una simile variazione del gusto, con i massimi Jeff Koons, Haim Steinbach, Peter Halley. Di rimbalzo, chiamato a selezionare artisti internazionali all ‘”Aperto” della Biennale di Venezia del 1990, vi feci invitare Koons, l’unico a non avere ancora superato il limite di una nascita nel ’55 che ci veniva imposto. Ma poco dopo, realizzando per conto mio in Emilia “Anninovanta”, fui libero di inserirvi proprio Armleder, a cui finalmente sono arrivato. E fu con una delle sue eccellenti “Furniture Scultpures”, dove compariva il colore, ma tramite la cromia “di pessimo gusto”, spaventosamente kitsch che da tempo era propria di tutti i mobili dozzinali, di formica o di altri materiali sintetici, un’orgia di tinte acide, verdastre, violette, ocracee. Nello stesso tempo, all’artista era data una sorta di alibi mentale, se qualcuno gli avesse rinfacciato un ritorno al colore, avrebbe potuto rispondere, come proprio poteva fare il nostro Armleder, “io non c’entro, quei colori impossibili ce li ha messi l’industria, in una fase sofisticata. Io li riprendo tali e quali secondo la modalità neutra del ready-made”. Ma si dà il caso che quella gamma cromatica svenevole, tra lo squisito e il banale, era la stessa che compariva nelle immagini di enormi circuiti elettronici, zigzaganti, labirintici, stesi da Halley, e il medesimo tripudio del “cattivo gusto” era pure nelle toppe con cui il tedesco Guenter Foerg picchiettava le superfici, e che dire delle costruzioni rigidamente metalliche di un altro tedesco, Reinhard Mucha, o dei violini spaccati, vivisezionati del fiammingo Vercruysse? Insomma, eravamo in presenza di una vera e propria “internazionale, anche se limitata per il momento solo alle due sponde dell’Atlantico, gli altri abitanti del pianeta attendevano ancora, ma per poco, la loro tumultuosa entrata in scena. Da notare che se i nomi fin qui elencati denotavano un recupero, ma aggraziato da quelle tinte, sofisticate, e vomitose nello stesso tempo, del clima Optical, magari con qualche tocco di minimalismo, c’era pure il versante iconico, espresso dal numero uno Koons, che compiva un’operazione molto simile sul versante oggettuale, iconico, anche in questo caso andando a recuperare le cose di cattivo gusto dagli scaffali riposti dei supermercati. E naturalmente anche per questo filone c’era una rispondenza dalla vecchia Europa, già la stessa Sonnabend aveva avuto il coraggio di inserire nella sua mostra apripista il caso giovanile quanto geniale di Wim Delvoye, e nel mondo tedesco facevano eco le soluzioni dure, acide, discostanti di Katharina Fritsch.
Tutto questo come introduzione al mondo ibrido, estremamente variato del nostro Armleder, che nelle 90 opere raccolte nell’occasione napoletana rivela tante altre corde al suo arco. Intanto, da vero erede dell’Op Art si produce in “puntini” e in altri interventi minuti a parete, fino ad aprire la strada a un erede come l’inglese Hirst, pronto anche lui a praticare un polistilismo sconfinato. I puntini e i minuti segni grafici, però, talvolta si allargano, si mutano in sciabolate, in strisce sferzanti, quasi un dripping in verticale, con cui Armleder sfida un gigante in materia quale Gerhard Richter. Ma poi, dopo essersi sbizzarrito in una sorta di neo-informale di coraggioso pittoricismo, ci mette un freno, accostandolo a rotoli di moquette accumulati sul pavimento, quasi chiamati a coprire e nascondere tanto impudico espressionismo. In sostanza Armleder si sa muovere molto bene tra gli estremi della anoressia e della bulimia, talvolta interviene di punta, quasi col fioretto, talaltra riveste le pareti di sontuoso materiale “capitonné” di un impossibile verde smeraldo, o rovescia per terra una pioggia di palline multicolori, di quelle che si arpionano in qualche pesca di beneficienza. Non manca qualche capatina residua nell’ambito del citazionismo, come risulta dalla ripresa di un capolavoro di Tiziano, ma subito fatto oggetto di inserimenti impietosi e profanatori. E non manca neppure una visita alla dimensione del suono, mediante il piazzamento di una batteria pronta a emettere le sue vibrazioni, che sicuramente saranno di tono stridulo, quasi al limite degli ultrasuoni. In definitiva questo è tutto un festival dell’andare su e giù, a parete o no, nello spazio, del solleticare i gusti più retrivi in fatto di cromia o invece di imporre loro digiuni e austere privazioni.
John Armleder, a cura di Andrea Viliani e Silvia Salvati, Napoli, MADRE, fino al 10 settembre.

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